editoriale di Geo@Geo

L’editoriale, in campo giornalistico, è un articolo che tratta temi di attualità di importanza rilevante, penso che sia superato esclusivamente dall’articolo di fondo, che in genere è lasciato al Direttore del giornale: ma qui chi è il Direttore?

In effetti anche su DeBaser si utilizza un sistema simile, anche se i temi sono rilevanti per chi li scrive, non necessariamente per chi li legge. Eppure il popolo dei DeBaseriani partecipa con notevole interesse alla fase di discussione, tanto che spesso si scatenano delle vere e proprie risse verbali, talora con scintille che bucano lo schermo e incendiano le tastiere dei più assidui.
E’ una danza di parole che attraversa a tutto campo il tuo video, utilizzando dei ritmi talora frenetici, talora più lenti: insomma dal valzer, al tango, passando per il rock’n’roll acrobatico e il boogie woogie.

In genere chi scrive un editoriale è una "grande firma", talora un giornale utilizza un pool di editorialisti: la formula di DeBaser è mista, usa “diverse grandi firme”.
I temi trattati sono i più disparati e non sempre classici o di attualità, ma ultimamente gli argomenti mi sono parsi più intimisti, a partire dal “cerchio ed il girino” di cui si parla il 23 dicembre 2010: uno degli editoriali più belli, coraggiosi, realisti con l’occhio rivolto al nostro futuro prossimo, i figli. Tutto quello che viene dopo è un tentativo costante di capire cosa muove il mondo che ci circonda; la partecipazione è grande, i giovani sono in prima linea seguiti dagli interventi dei “così detti anziani”, anche se non garantisco l’incolumità di nessuno ad usare tale termine in discussione. Cinismo, speranza, buon senso, vergogna, stupore, autoironia, sconcerto e altro, appaiono in quegli interventi quasi sempre apparentemente buttati li, ma in realtà ben soppesati anche nelle virgole.

In questo grande paese che è DeBaser c’è veramente posto per tutti, ma proprio tutti , con poche eccezioni: non si sopportano i bugiardi, gli attaccabrighe di mestiere, i non rispettosi delle idee altrui e i perditempo.
Le parolacce e gli “ideogrammi” sconci, vengono concessi; l’intelligenza asfalta le pagine virtuali di questo luogo invisibile, eppure così a portata di “dita”; sono una cittadina di recente acquisizione, ma non mi sento affatto spaesata; la bellezza di questo “posto” è proprio qui, davanti a te, nel tuo schermo.

Non ho interesse a scrivere editoriali, a meno che non ci siano necessità pressanti, lascio questa fatica a chi lo fa decisamente meglio: questo è solo un piccolo tentativo di esposizione di fatti reali, a dispetto di una realtà virtuale che ci ammanetta al computer.
Userò l’ordine alfabetico, perciò ai Bartleboom, Fosca, ilfreddo, Jurix, MoA, Zaireeka e a tutti gli altri, dico solo: scrivete, scrivete, scrivete.

di più
editoriale di ilfreddo

Raccogliere rame, quello che la maggior parte della gente disprezza da quando la lira è morta, e ritrovarsi ad avere dopo qualche pagina di calendario diversi chili in forma di cerchi. Li guardo pensieroso, mordendomi fino al sangue il labbro inferiore, ed infine opto per un esperimento: lanciare questa pioggia infinita di monetine dal mio pc a quello di una banca sconosciuta per un'offerta libera.

Inizialmente provo a non badare alla zanzara che si è posata sul braccio e che ben presto mi ha punto. Tento di non controllare la risposta: il grazie che sono certo di aver ricevuto. Ma i giorni passano, accumulandosi come vecchi giornali in un tristo angolo senza luce, e ad un certo punto erutto l'impazienza accumulata e mi ritrovo a scorticare la pelle punta in profondità, fino all’osso.

Non credo di aver mai controllato la mail con così tanta costanza e frenesia. I soliti vari messaggi inutili; ma quello che cercavo. Cazzo, quello no. Non è possibile: sarà in ferie, mi dico. Mi ritrovo impaziente, come un innamorato al suo primo amore. Quello che, con il cellophane ancora attaccato al cuore, è intento a masturbare senza pausa il cellulare per leggere e bere il miele gratuito della sua dolcissima metà.

Quest’attesa febbrile ci ha messo un bel po’ a scemare ed andarsene. Innumerevoli volte sono pure stato tentato di scrivere qualcosa del tipo: ma con quel fottuto rame che ho raccolto con così tanto amore e che ti ho donato si può sapere che cosa cazzo ci hai fatto? Te lo sei mangiato, scolato al primo bar?

Fa estremamente male realizzare che l’esperimento sia riuscito.

Ci credevo davvero quando ho premuto ente, ma è inutile negare che quell’offerta non l’ho mandata per soddisfare un nobile bisogno di elargire liberamente un po’ dei miei risparmi per qualcosa che a mio opinabile parere meritava un plauso. L’amara realtà è che se getto un sasso nel lago, lo faccio per vedere le onde che quella caduta crea. E più grandi sono, più sto bene. Se caccio un urlo non è per sfogarmi, ma solo per sentirne l’eco fragoroso. Se faccio un gesto gentile è perché penso che il grasso grazie che nascerà, con ogni probabilità, mi sazierà come un pranzo di Natale.

Queste monete elettroniche lanciate, e fortunatamente rimaste senza eco, hanno finalmente dimostrando inequivocabilmente quanto il mio vivere sia meschino, doppiogiochista, traballante. Insicuro. Come anche l’azione più apparentemente nobile, una donazione, altro non sia che un gesto fatto per mero tornaconto ed appagamento personale: il lauto ringraziamento riflesso che ero convinto di generare.

Perché se così non fosse non dovrei sempre tendere l’orecchio dopo, restando in attesa di sentire quel fottuto eco. Agirei e basta, senza avere il bisogno di sapere cosa ne pensano gli altri ed aggrapparmi ai loro giudizi. Non godrei a scrivere i miei pensieri qui, ma me li terrei per me e per i pochi amici con i quali verrebbero fuori, forse, dopo tre pinte al bar. E starei bene comunque.

E voi lì dietro, ditemi un po’ popolo di debaser, sapete resistere all’eco? Al bastardo ed ammaliante canto delle sirene?

di più
editoriale di MorgueOfAbsinth

Dunque, sentirsi o definirsi intellettuale equivale ad ammettere la propria idiozia, la propria malafede, la propria stupidità assoluta, mascherata da una bella e sana coltre di arroganza e cinismo?

Lo scrittore Cesare Battisti, rifugiato politico a Parigi, è stato arrestato dalle forze di polizia francesi il 10.2.04, ed è trattenuto in carcere in attesa di estradizione. Protestiamo contro questo scandalo giuridico e umano, e chiediamo l'immediata liberazione di Battisti.

Sto tentando di comprendere la psiche dei millecinquecento firmatari di questo appello. Perché tutta questa colta partecipazione per Cesare Battisti e non per Ercole Vangeli, omicida plurimo? O per l’ineffabile ex gaudente Angelo Izzo o per l’incredibile Skylar Deleon? Nei miei infruttuosi e psicologicamente carenti tentativi ho tentato di vedere attraverso gli occhi degli eroici millecinquecento: Vangeli è un terrone senza stile, probabilmente si ciba d’aglio, ama la mamma, ha la canotta macchiata di sugo e tiene i caricatori accanto alle immagini di Maradona e della Madonna; Angelo Izzo è un fascista di merda, un neonazista, calvo e bruttarello, degno di marcire accanto a Hitler, Céline e ad Anselmo Sgaldan (Anselmo, 97 anni, da Vigodarzere, è l’unico nonno in Italia a non essere mai stato un partigiano, bensì un fascista; lui, unico in tutta la nostra grande nazione); Skylar Deleon ha distrutto la psiche di miliardi di bambini, da Alpha Centauri a Ficarazzi, Palermo, impersonando uno dei Power Rangers, tipico prodotto televisivo obnubilantemente fallocentrico di una civiltà americana hamburgerizzata in piena decadenza culturale e intellettuale. E antifemminista.
Cesare Battisti no. Bernard-Henri Lévy lo definisce “ancien enragé divenuto scrittore". Philippe Sollers, Daniel Pennac, Fred Vargas, Valerio Evangelisti, i Wu Ming, Vauro, Marco Philopat, Tiziano Scarpa, Alex Cremonesi lo ammirano: sono alcuni, tra i più celebri, che all’epoca firmarono l’appello sopra riportato, credendosi tanti piccoli Zola impegnati in un affare Dreyfus trasportato nel XXI secolo.

Con la loro semplice firma, in calce ad una così assurda richiesta, hanno dimostrato ben altro, senza che si avverta il bisogno di leggere i loro scritti in proposito, le loro apologie, le loro miserabili autodifese.
Hanno dimostrato di non aver capito che Battisti, come Vangeli, Izzo, o Deleon, ha semplicemente impugnato la pistola e ucciso. Hanno dimostrato di non aver compreso che quattro parole del cazzo, vergate in ordine e pubblicate, non fanno di un pennivendolo uno scrittore o un artista. E anche se lo facessero, non potrebbero cancellare omicidi compiuti ipocritamente nel nome del terrorismo proletario. Hanno dimostrato di non aver capito che non possono più giocare a fare gli arrabbiati, giunti all’età della ragione: la pietà va alle vittime, non ai carnefici; l’impegno sociale deve essere riservato agli innocenti e ai deboli, non ai tracotanti e arroganti Battisti di ogni credo; che l’ammirazione verso i tenebrosi e violenti prevaricatori dell’ordine instaurato tra uomo e uomo, verso i colti vendicatori del popolo (del quale peraltro i firmatari non fanno parte) adombra miopia assoluta: o, più spesso, cieca malafede, egolatria e inebriamento delle proprie grottesche visioni del mondo politico e sociale.

Ma ecco, sorpresa, una nera surrealtà che si china a inghiottire l’era della ragione.
In questi giorni è partita da Venezia una grottesca operazione di boicottaggio verso i libri di questi signori; Raffaele Speranzon, assessore alla Cultura della Provincia di Venezia con delega alle Biblioteche, ha affermato: "Scriverò agli assessori alla Cultura dei Comuni del Veneziano perché queste persone (i firmatari di cui sopra, N.d.A) siano dichiarate sgradite e chiederò loro, dato anche che le biblioteche civiche sono inserite in un sistema provinciale, che le loro opere vengano ritirate dagli scaffali: è necessario un segnale forte dalla politica per condannare il comportamento di questi intellettuali che spalleggiando un terrorista". Particolarmente inquietante è stato l’appoggio dato alla proposta da parte di Franco Maccari, segretario generale del sindacato di polizia Coisp. Polizia e controllo dei libri: qui qualcosa non quadra.

Ad idiozia aggiungiamo estrema idiozia, velata però da paura: ed ecco che si torna ad un clima grottesco dove da una parte si gioca al piccolo nazista con le liste nere di libri; dall’altra si recita la parte dei geniali artisti attaccati da una selvaggia dittatura ma mai domi, sempre ribelli (cazzo, i Wu Ming e Valerio Evangelisti, altro che Heine, Mann o Remarque!).

Ho paura sapendo che Raffaele Speranzon è diventato assessore alla Cultura. Perché è un burocrate ignorante, un ex MSI, perché certamente, date le sue parole, vive nel culto di Mussolini, perché ad un Cro-Magnon come lui è stata affidata una delle più alte missioni: la protezione e il progresso della cultura, gradita o sgradita al potere.

Per cui, nonostante tutto il livore che ho riversato nelle righe precedenti, aggiungo una firma a favore di quei poveri dementi dei firmatari a favore di Battisti.
Che continuino imperterriti a scrivere, pubblicare e vendere, nonostante Speranzon e la sua triste progenie insistano nello strisciare, ventre a terra, come marci vermi e nel tentare di trascinare l’umanità al loro putrido livello.


di più
editoriale di zaireeka

Oggi, tranquilli, non ho assolutamente intenzione di parlarvi delle mie solite menate filosofiche, tipo problemi della fermata, numeri casuali, natura della coscienza, ed altro. Nè della composizione quanto-meccanica del nostro corpo.

Ciò di cui voglio parlarvi, scusate la modestia, è di come viene al mondo e si forma il nostro modo di pensare.

Quello di cui siamo fatti, cari amici miei, salvo rari casi, sono semplicemente idee altrui, lette o ascoltate, troppo spesso neanche capite fino in fondo, per non dire assimilate con superficialità ed addirittura usurpate, sbandierate ai quattro venti per darci un tono.
Detto questo, vado al dunque.

Come quasi tutti sanno, negli ultimi anni si fa un gran parlare di come il pensiero di tale Joshua il Nazareno sarebbe stato usurpato dai fondatori di quella religione chiamata Cristianesimo.
Forse però pochi si sono accorti che in questi giorni, quasi come un contraltare, seppur fatti i dovuti distinguo, si fa anche di peggio con le idee del compianto Mario Monicelli riguardo l'inesistenza di Dio. Mario Monicelli era sicuramente un ateo, non penso ci siano dubbi.

Quello che però voglio dire è che, a mio modesto parere, nessun uomo, neanche Monicelli, potrebbe mai riuscire a prendere alla leggera l'idea della inesistenza di Dio.
In fondo non stiamo parlando del fatto se Babbo Natale esista o no.

La convinzione interiore dell'inesistenza di Dio (quello vero, non quello con la barba bianca, tanto simile a Babbo Natale), di qualcosa/qualcuno che spieghi il "fine ultimo dello nostra vita", è quanto di più sconvolgente possa essere provato dall'uomo, e qualunque uomo, se non già diventato completamente folle per la relativa presa di coscienza, continuerà a cercarlo per tutta la vita, (giusto fra parentesi, io penso di essere fra questi) seppure a volte senza saperlo.

Ed è proprio questa ostinata ricerca, conscia od inconscia, unita alla grandezza ed alla genialità di alcuni uomini, che ha portato all'umanità delle opere d'arte, in campo umanistico e scientifico, di straordinario valore.
Ci sono poi quegli uomini che, d'altro canto, portano a bandiera le idee di gente come Monicelli in maniera superficiale, senza condividerne la relativa sofferenza interiore.

Questi ultimi, a mio avviso, possono anche arrivare a sparare qualche cazzata su qualche sito internet, se mai fare i ganzi scrivendo dio con la "d" minuscola, che fa tanto ateismo cinico e di tendenza.
Ma nulla di più.

Io ritengo che Monicelli appartenesse agli uomini della prima categoria, alla faccia di quelli che lo liquidano solo con un "comunista ed ateo".
Onestamente me lo immagino in questo momento in braccio a Dio, che dal cielo fa un bel gesto dell'ombrello rivolto a tutti quelli sotto, urlando, sempre incazzato contro il "Sistema":

"Dovrei dirvi che ci ho semplicemente ripensato. Ma in verità Vi ho preso tutti in giro cosicché il Paradiso non fosse troppo affollato e potessi, una volta arrivato qui, averLo (e sapete di Chi parlo...) tutto per me.".

di più
editoriale di ilfreddo

Rideva acido nei confronti delle colline sottostanti. Pomposo, alzava la schiena e stava bello dritto con la sua parete verticale e cazzuta; capace di mantenere sul versante nord un po’ di neve fino a giugno inoltrato. Le guardava con sdegno e sufficienza quelle dolci curve verdi quasi mai innevvate, ed arrogante scaricava pure un po’ di pietre. Proprio su di loro, che dal basso lo veneravano come se fosse un Dio.
Dopo qualche migliaio di anni lo stesso monte viene venduto ad un avido collezionista. Come tutti anche questo è smanioso di avere vicino a sé il nuovo acquisto e così, senza perder tempo, fa arrivare subito in città un Miracle Blade milionesima serie perfetta. La famosa lama, che affetta benissimo anche il pane morbido, fa cadere con un taglio sapiente e deciso la gigantesca parete. Giù, nel teletrasporto posto con accuratezza alla base della stessa. Un suono elettronico ed istantaneamente le colline si scoprono essere quello che non erano mai state prima: assolate ed altissime ora dominano un panorama sconfinato.
Il monte invece, dall'altra parte del globo, si guarda spaurito e timoroso. Cazzo fa freddo, si dice, mentre tossisce un paio di grasse valanghe. Da qui quasi non lo vede più l'amico sole con il quale era solito discorrere a lungo del più e del meno. Spalle rocciose senza fine in ogni direzione gli coprono la visuale. Le risa di scherno taglienti ed acide, simili a quelle che rivolgeva alle colline, ci sono anche qui sebbene non le senta: giungono da troppo lontano, da troppo in alto e sfumano nel vento gelido.

In ogni compagnia ce n'era uno ed una parte delle serate adolescenziali ed universitarie, inutile negarlo, eravate soliti passarle prendendolo apertamente per il culo. Ed era un vero spasso perché non se rendeva nemmeno conto. Di fronte ad una battuta non colta, ad un doppio senso a lui invisibile, si proteggeva ridendo forzatamente. Ma non convinceva nessuno. Il cespuglio nel deserto che rotolava nel fumetto sopra la sua testa era gigantesco: una scritta al neon in una notte senza luci. In quello sguardo vacuo, in quelle uscite così innocentemente inopportune e disarmanti, era difficile riuscire a non cedere alla tentazione di forzare la mano. Almeno un po’. Perché se lo aveste lavorato ai fianchi con fare diabolicamente affabile, glielo avreste potuto vendere un volume di una Treccani in islandese facendogli credere che fosse davvero quella la cosa che doveva assolutamente acquistare.

Poi ti innamori. Prima di rinsavire e trovare gli occhiali della giusta gradazione hai già cambiato compagnia, coordinate IBAN, città e lavoro. Tutto procede normale e anno dopo anno scopri che questa gente dalla strana pronuncia con la quale vieni a contatto ti sta parecchio simpatica. La trovi acuta e stimolante: altro che i beduini pecoroni che governavi e prendevi per il culo. Discorsi al fosforo e ore piene di risate. Cazzo, non avevi mai riso così tanto in vita tua.

E così, dopo una di quelle serate divertenti ed appaganti, torni a casa soddisfatto. Riponi con cura il sacchetto sulla tavola e poi, con fare lento e sacrale, sfogli il grasso tomo in pelle appena comperato. Le rughe del tuo sorriso si asciugano in un istante per un volto di cera. Perché amaramente scopri che non c'è proprio un cazzo da ridere.

Toh, islandese.


di più
editoriale di JohnHolmes

Il web offre la possibilità di creare dal nulla molte cose. È così che ritrovi la tua vita sparpagliata tra account di Facebook, Twitter, Myspace e affini. Tutte cose che chiunque può creare all’interno della grande rete rapidamente e con semplicità.
Tuttavia questo piccolo gesto chiamato “creazione” non fa per noi. Non è dell’uomo, almeno non totalmente.

Ho avuto piena consapevolezza della limitatezza delle nostre possibilità qualche sera fa, mentre ero intento a registrarmi su Gmail e mi è servita un’ora per decidere che nome dare al mio nuovo indirizzo di posta. Ho pensato che, di fronte a problemi oggettivamente così piccoli, come attribuire un nome ad una realtà virtuale o concreta (come quando nasce un figlio), è molto difficile procedere e abbiamo bisogno di momenti preziosi per ponderare la questione e valutare attentamente le possibili eventualità.

Giusto per restare in tema, pensate a quando siete in procinto di scrivere una recensione: trovare le parole giuste, cominciare il discorso nel modo giusto, assemblare le parti in maniera perfetta non è facile né immediato.
Si tratta di tentativi umani di creazione che non sempre lasciano soddisfatto l’autore.

Guardandomi intorno ho pensato: se davvero esiste qualcuno o qualcosa che ha creato tutto questo mondo, egli deve essere molto più grande di noi per poter realizzare qualcosa di così grandioso.

di più
editoriale di JURIX

Basta! Non è possibile che la gente si lamenti sempre e veda trame oscure dove invece tutto funziona a meraviglia.

Sento diversi amici che cercano un lavoro da mesi, e poi quando lo trovano e scoprono che non hanno diritto a ferie o malattia si lamentano; ma tutto questo è per far recuperare loro il tempo che sono rimasti a casa prima. Le donne poi assurgono di avere più problemi degli uomini perché il datore di lavoro non vuole che poi stia a casa in maternità: ma mica è una cattiveria, ma uno stratagemma per andare incontro ai già pieni asili-nido.

Sempre a voler vedere il lato negativo delle persone, ohibò.

Prendiamo ad esempio Tanzi e Gaucci, che dopo aver preso in prestito qualche soldo si sono visti puntare il dito contro dalla legge italiana, ed allora sono andati in qualche isoletta del centro America casomai le popolazioni locali ne avessero bisogno, e voi tutti a pensare male.

O parliamo di energia: si stanno erigendo molti nuovi 'termovalorizzatori', che oltre a produrre energia a costo quasi nullo, sono degli splendidi obelischi che richiamano i fasti dell'antichità, perlopiù hanno pure una vena magica: introduci immondizia e questa scompare; ma no, la gente pensa sempre male.

Quando il Vaticano giustamente ha condannato l' uso del preservativo per difendere l' ambiente dal crescente consumo di plastica... oppure quando alcuni dirigenti calcistici telefonavano per avere informazioni sulla salute dell'arbitro o su come avevano mangiato al ristorante il quarto uomo... anche qui c' è gente che fa sempre malevole illazioni.

Vi lamentate sempre di tutto: un amico l'altro giorno mi diceva che quindici anni fa con 11'000 £ si vedevano live i Carcass, oggigiorno si pagano 30 Euri per i dARI, sì d'accordo, ma è logicamente una norma per avere più spazio all'interno dell'area concerti.

Abbiamo politici che si prestano a tutto pur di far girare l'economia del Paese, anche organizzando costose feste nelle loro ville, per di più togliendo pure la prostituzione dalle strade, ma molte persone no, non sono contente.
In Parlamento ci si rifiuta a ragione di fare il test sull'assunzione di droghe, e molti di voi lanciano accuse... ma scusate a Palazzo Chigi c'è un'età media che supera i 70 anni, quale metodo più giusto per fare in modo che diminuisca l'offerta di cocaina per i nostri figli?

Piovono accuse di sperperare troppi soldi per le missioni militari all'estero o per finanziare l'Alitalia... ma secondo me si può star tranquilli, di tutti quei soldi ne arriverà un quinto, il resto si perde nel lungo viaggio o in cassetti di uffici vari ed eventuali.
Malelingue mettono in giro voci di presidenti di regione che assumono come collaboratori i propri familiari... bhè a me sembra una buona cosa, con tutto il traffico delle grandi città, è una cosa giusta andare al lavoro con la stessa auto.

La benzina è molto più cara confrontata con altri Paesi europei? Ma invece di fare equiparazioni faziose, avete confrontato pure i premi che danno coi bollini? No eh?

Poi si parla tanto di creatività italiana, di buon cibo, ma dopo quando uno inventa un colorato modo di abbellire i nostri pasti con una mozzarella blu, tutti a dargli contro vero? Vergogna!

Ed infine, l' informazione: sempre pronti a parlar male dei giornalisti, accusati di essere troppo accomodanti; proprio ieri vedevo un servizio di un inviato che spiegava come le Ferrovie dello Stato funzionino in maniera eccezionale (come tutti possono constatare), ed indovinate un po'? Questo giornalista era in seconda classe e pure in piedi: più "scomodo" di così!

Bene. Ho finito.

Come dite? L' editoriale è ironico? Ecco, ve lo dicevo... sempre a pensar male.

di più
editoriale di MorgueOfAbsinth

Una pioggia eterna cade ormai sul Veneto. Sembra quasi che il corpo della regione su cui mi ha posto il destino si stia sfaldando lentamente. Da Vicenza a Padova, a Caldogno, a Cresole il terreno è diventato come il corpo disteso di un arrogante provocatore che riceve colpi su colpi credendosi invulnerabile: provoca alla rissa un avversario di forze incomparabili, estreme, e si rallegra del fatto che i primi pugni, per quanto violenti, non lascino tracce sul suo organismo. Ma, come tutte le ore feriscono e l’ultima uccide, tutte le gocce di cemento indeboliscono e l’ultima provoca la morte di un territorio. Così è il Veneto. Un’apocalisse di cemento che ha dimenticato come sotto l’asfalto che nessuno calpesta, sotto i centri commerciali che ospitano anime morte, come sotto le migliaia di case inabitate e di fabbriche immobili ci sia la terra veneta.
Cadono massi sfaldati come palazzi in rovina, cadono i denti spaccati del Veneto, colpiti dai pugni del Bacchiglione, del Tesina, dell’Agno, fiumi da niente resi invulnerabili dalla morte della terra veneta; l’acqua rovesciata sul cemento diventa umana quando non trova via di fuga: urla, cade in panico liquido, soffoca come una folla sotto la sua stessa massa, cresce cadaverica fino a morire e a trasfigurarsi in una palude di fango priva di senno, pronta a ingoiare migliaia di animali, milioni di euro e tante speranze quante vittime.

Ho spalato fango. Poco per senso civico, forse per nulla per altruismo, probabilmente molto per soddisfare l’ingenuo palato del mio ego e per apparire, almeno ai miei occhi, come un angelo del fango o qualche stronzata simile; o come la persona generosa e disinteressata che, pur tentando, non sono mai stato, tendendo piuttosto alla piccolezza, alla miseria nelle azioni, ad un egoismo spicciolo ammantato da una patina di falsa pirite morale.
Ma non è di questo che volevo parlare. Mettendo da parte il mio ego prezioso, ecco che narro di aver spalato fango.
Tu da solo? No, signor Brecht.
Volevo parlare di ben altro.
Perché so che un’esperienza individuale di rado può assurgere al rango di verità generale. Ma so anche che nei giorni del fango di Vicenza ho conosciuto e parlato con altri volontari.
E in gran parte erano gente di merda, la peggiore feccia del mondo, la più guasta fanghiglia umana in cui si possa pescare.
Negri di merda, vecchi e giovani, uomini e donne. Quelli ai quali dai del tu quando li incontri, anche se hanno l’età di tuo padre e perché non hanno la bianca gravità di un professore universitario. Quelli che sembrano usciti l’altro ieri dalle caverne, sozzi e animaleschi nei lineamenti.
Rumene del cazzo, che lasciano il lavoro miserabile di pulire scale e cessi per passare quattro ore in uno scantinato allagato come non se ne trova traccia neppure nella Bibbia o nel fluviale “Suttree”. Rumeni pezzenti, stupratori, ladri, sempre pronti a menare pugni e fendenti, ratti subumani, niente più che carne da linciaggio mediatico o da frecciatine da leghisti moderati.
Operai disoccupati, mezzi uomini ricchi solo di ignoranza, di dignità perduta nei gorghi del tempo, di monolocali umidi dalle cui crepe cola povertà.

Ti ringrazio, fango. Mi rivolgo a te come ad un uomo, come a tutti gli uomini e le donne incontrati in quei giorni. Scrivendo queste righe mi trovo a sovvertire l’antica metafora che ti vede come simbolo della sporcizia, fisica e morale. Il fango è pulito, onesto. Più si deposita sulla faccia e sugli abiti più rende consci dell’umanità di chi ne viene ricoperto. Cristo aveva ragione. Beati gli ultimi perché saranno primi. Ma per me questi ultimi sono già primi qui sulla terra: uomini e donne che mi mozzano il respiro. Che mi lasciano commosso, steso sul mio letto alle sei di mattina, con l’abusata non metafora reale del cuore gonfio. Vedo i vostri visi, amici.

Per quanto io stesso sia indegno, davanti a loro, immerso nelle mie comode certezze e nel mio egoismo miserabile e benché, come ho già detto, la mia sia solo la mia esperienza, ho una domanda.
Ho una domanda per voi, ragazzi del Veneto bene, per voi che, pur avendo due lauree vedete negri e rumene e non persone, per voi che trattate con condiscendenza gli operai che vengono a rifarvi il tetto o la signora che vi pulisce casa, per voi che fate gli stronzi con il padre medico e la madre dentista, per voi che se trovate Franco vedete in lui il deficiente che costruisce bare e non l’uomo.

Voi, dove cazzo eravate mentre loro splendevano come uomini liberi nel fango?


di più
editoriale di kosmogabri

Questo è un editoriale ed io ci vomito dentro quello che mi passa, che tanto qui non c’è niente da recensire, anzi si! Recensiamo la mia rottura di palle, il mio atteggiamento asociale-acido-nichilista- strarottodicoglioni-misantropo che più di un atteggiamento è uno stato d’animo o un modo di essere o un temperamento o una personalità.

Gente come me scivola inesorabilmente nel cliché del macchiettaro provocatore e aggressivo nei rapporti interculturali, ma vi assicuro una cosa, e che possiate passare la notte attaccati alla tavola del cesso se dico minchiate, CONSAPEVOLEZZA e CULTURA sono a ZERO e non parlo dei ragazzi che spaccano tutto per i fondi universitari, non parlo del declino sociale che attraversiamo, non parlo di Berlusconi, non parlo di Bunga Bunga, non parlo della TV, non parlo della criminalità organizzata, non parlo dell’Europa, non parlo di Saviano, non parlo di Vieni via con me, non parlo dei rapporti di coppia, non parlo dei figli, non parlo delle crisi matrimoniali, non parlo dell’Italiota, non parlo dei borghesi, non parlo di religione, non parlo di marte, non parlo della CIA, non parlo di P3, non parlo dei paradisi fiscali, non parlo del passaggio euro lira, non parlo di non scopare, non parlo di malattie, non parlo dell’inquinamento, non parlo dei saccenti, non parlo del Natale, non parlo della disoccupazione, non parlo degli intellettuali che non vanno in TV, non parlo del 2012 o altra cazzata, non parlo di Quark, non parlo dell’eutanasia, non parlo del Papa, non parlo di pedofilia, non parlo di teocrazia, non parlo di Hitler, non parlo di comunisti, non parlo degli animali in estinzione, non parlo della macabra passione per gli omicidi e sparizioni in TV, non parlo dei cazzi miei, non parlo dei cazzi vostri, non parlo della cultura dell’immagine, non parlo delle frustrazioni, non parlo delle invidie, non parlo di vallettopoli, non parlo di chi guadagna miliardi e non fa un cazzo, non parlo di disoccupati, non parlo di extracomunitari, non parlo di rom, non parlo di stragi, non parlo di trans, non parlo di calciatori e veline, non parlo dell’hardcore, non parlo con nessuno, non parlo di Sharm el-Sheik, non parlo con tutti… parlo solo di noi.

Noi assuefatti da una naturale amoralità e pigrizia intellettuale, volta ad una quotidianità, apatica di stenti che si strascinano verso un declino dell’anima, ai vuoti dentro che non sai mai dove nascono… parlo di noi che non abbiamo capito che nella vita ciò che ci rende davvero vivi sono le passioni, quelle alle quali molti hanno rinunciato, quelle che paradossalmente a scanso delle mille responsabilità ti riempiono l’anima, quelle che Pavese definiva pericolose, quelle che ti permettono di mollare tutto per conquistarle, quelle che ti permettono di non morire, quelle che ti insegnano a lottare diventare più forte, quelle che ti completano e riscattano il proprio karma.

Nulla si crea, nulla si distrugge tutto si trasforma: nelle moltitudini di vite vissute, dovremmo aver acquisito l'importanza delle passioni, mentre invece ancora oggi mi trovo a vedere la gente rinunciare a sé stessa.

Come potremmo mai sperare di incontrare gli alieni se siamo in queste condizioni, o forse loro sono già in mezzo a noi che ci guidano ad una sopravvivenza ormai ai limiti, alieni vi prego prendetemi!

Alieni aiutatemi! Venitemi a prendere che qui molti credono di essere già morti, quando invece non hanno capito che grazie a Dio sono ancora vivi!!!
Alieni! Alieni!!!

di più
editoriale di ilfreddo

Appiccicato alla finestra, con il naso all’insù! Lenzuola cadono soffici ondeggiando lentamente prima di poggiarsi su un pavimento fatto di morbidi fazzoletti abbaglianti. E’ una caduta lenta ed appagante, certamente ipnotica, che non pare proprio avere fine. Il sorriso cresce mentre esce dalla gola un tenero garbuglio di versi incomprensibili suffragati da un braccio che si alza: gioia. Quei gelidi giorni prima e dopo Natale come una storia d’amore appassionata, fresca ed inebriante. Il sapore delle sue labbra nelle tue e quella voglia di non lasciarle andare. Telefonate a cascata, batticuore, promesse e quella tenera e falsa convinzione che, cazzo, stavolta l’incantesimo sarebbe durato per sempre. Natale ed i suoi regali nei mesiversari, nelle serate blockbuster con la cioccolata calda ed il piumone, negli happy hours chimici, nel finto studio in biblioteca e nelle sperimentazioni a letto con un timoroso orecchio teso alla porta.

Poi una sera di fine dicembre quel bimbo scopre che il barbuto panzone vestito di rosso non viene dalla Lapponia ma dalla stanza vicino alla sua; e quello è un momento duro da accettare. Il primo discorso serio tra i quattro occhi dello stesso DNA. Non la guarda più la neve che scende, ma solo quelle palle grigie del gigante. Fanculo, si cresce! E la bella storia d’amore mette su qualche chilo e si avvicina al terreno che prima manco sfiorava. La letterina non la scrive più e le vacanze vengo attese con trepidazione per giocattoli tecnologici assai costosi; come le cene tête a tête sempre più impegnative con discorsi sul futuro. Il Natale che diventa carino, normale, incolore.

La routine si tramuta in un paio di bei abiti bianconeri su un altare. Le posizioni, dopo il miele, sempre meno perché il mal di testa è una consuetudine, le amiche di lei proprio non le sopporti ed il calcetto e le serate alcoliche con gli amici sono sbiadite e sparute come gli stoici capelli che restano sulla cute e non muoiono, come gli altri, sul cuscino. Di risatine mica tante, ma le frecciate al veleno e i paragoni; no, quelli non mancano.

L’angioletto innocente che guardava la neve è cresciuto: un acido stronzo adolescente saputello che ora tira pezzi di ghiaccio annerito sui compagni di scuola bestemmiando. Il Natale come una piaga: perché non ha mica voglia di farli i regali e buttare nel cesso giorni per stare con i parenti obsoleti e vetusti. Per cosa poi? Sua nonna, quella rincoglionita, non sa che con i suoi 50 euro non ci può comprare nemmeno una stecca!

Poi il miracolo: un cerchio ed un girino si incontrano per caso tra ginocchia e polmoni, si piacciono tanto e crescono al caldo. E così l’ultimo 25 dell’anno torna ad essere catapultato in cima alla lista. Vedere lui, o lei, che si gode le luci ed i regali riporta la vigilia in auge come ai bei tempi. La coppia torna cemento armato di quello cazzuto che nulla, ma proprio nulla, potrebbe scalfire. Natali sereni si susseguono ma il piccolo bipede, o forse due in rapida sequenza, cresce in fretta. Prendono con simmetria i difetti di lui e le paranoie di lei e le richieste di regali alla filigrana spengono ben presto l’atmosfera ricreatasi.

E così non vi parlate più: i genitori. Rassegnati ed invecchiati davanti alla tv. Lei ti giudica mentre mangi violentando le posate e pur non dicendo nulla ha scritto in testa un fumetto enorme. In quei silenzi di ghiaccio un foglio protocollo di insulti che lui non prova nemmeno a leggere perché ha la partita da guardare, una birra da finire. Estranei. Natali si ammucchiano in un cantuccio assieme agli altri come strati di polvere incollati con resina sul tavolino. Una storia d’amore che si inaridisce e tira avanti per mera inerzia. I futuri eredi se ne sono andati in affitto e gli spazi tra quelle quattro mura ora sono enormi, quasi paurosi. Natale come un’ancora: una scusa alla quale aggrapparsi per far scontrare, almeno una volta all'anno, conoscenti che camminano ormai veloci su altri binari.

Poi un bel dì, ma forse era sera a pensarci bene, un altro girino entra in un altro cerchio ed il Natale torna prepotente redivivo. Fogli di giornale fatti bruciare zampillano arzilli per una fiamma azzurra.

Una casa calda e festante. Nonni e genitori si sorridono mentre guardano una manciata di ossa e morbida pelle osservare estasiata ed ipnotizzata la sua prima neve cadere dal cielo. Gli occhi sgranati davanti alla finestra: potrebbe star lì per ore.

Buon Natale Debaser!

di più
editoriale di Karimbambeta

Quasi le 5 del mattino.
Un bicchiere di vino, una sigaretta poco gradita ai polmoni, e segni di un'insonnia cronica e sofferta.
Guardo un film del '72, mentre qui accanto a me giace una rivista di "cultura generale", trastullo per casalinghe turbate: qualche pagina di moda, qualche dossier su viaggi di tendenza, qualche ricetta lampo (l'ultima arte, quella culinaria, anch'essa sta lasciando spazio alla mediocrità insolente del "produrre anche quando si è inetti"), e tanta, tanta carta lucida e sporca di parole disoneste.
Guardo il film.

Le donne erano belle: occhi profondi e sinceri (quella profondità che costringe la mediocrità ad adeguarsi o a eclissarsi), occhiaie lievi o pronunciate, gambe sottili o tornite. Belle.
Guardo la rivista, e vedo zigomi alti e grotteschi, sguardi imposti e spenti, energie negative e odore d’inchiostro sprecato.
Le donne erano belle, ora sono maschere. Le donne erano brutte, ora sono maschere ritoccate.
Il mondo era bello e lo si apprezzava. Il mondo è bello e lo si deride.
Il mondo è marcio, e si vive bene o si piange. Si piange per dimenticare. Si piange per secernere fino all'ultima lacrima accumulata; svuotarsi, fare finta di niente e ricominciare da zero. Ogni giorno.

Gli occhi belli erano belli anche con occhiaie. Anzi, forse lo erano di più.
Un abito era bello anche se fuori moda, e una melodia era bella anche se non l'ascoltavi in discoteca o in qualche festino da "centro sociale" dei nostri giorni (che fa lo stesso).
Danno la pubblicità, ora. L'ennesima "diavoleria" informatica: uno strumento che regala il mondo a chi del mondo non sa che farsene. L'ennesimo invito a dimenticare, a versare lacrime catartiche e a ripartire da capo.
Ma non ce n'è bisogno.
Ho visto donne e uomini cambiare anima davanti a una digitale e dimenticare.

"In ogni nazione ci sono delle persone buone che pensano a come far stare bene la gente normale che lavora". In ogni nazione c'è chi pensa a farti stare bene e a farti dimenticare. Ora che hai dimenticato, ora che hai formattato la memoria, devi metterci su solo un bel lucchetto e buttare via la chiave.

Viviamo tra donne di plastica (e all'interno non hanno aria ma sangue, ossa e cartilagine), viviamo in piazze virtuali dove anche balbuzienti e relitti umani trovano la propria rivalsa. Viviamo tra chi pensa a che foto scatterà il giorno dopo.

Non sto speculando sulla nostalgia e su valori anacronistici. Non me ne frega un cazzo. Ho solo paura di non poter più toccare, parlare, fare l'amore con UOMINI, e non con "profili"; ho paura di piangere anche io per dimenticare e di vivere per veder vivere. Ho paura di non riuscire più a capire che in fin dei conti il divertimento è solo una foto scattata in una serata dove tutti sono debosciati che ondeggiano per inerzia e che cambiano fulmineamente espressione di fronte l’obiettivo.
Cerco la coerenza, la correttezza, la bellezza, la natura. Cerco occhiaie e rughe marcate.

Ma sto qui a spiegarvelo su internet...

di più
editoriale di zaireeka

C'è poco da fare.

Almeno una volta l'anno un pizzico di banalità non guasta.

Ed allora lo dico.

Natale è la festa più bella del mondo.

Il motivo per cui ogni anno, più o meno tutti, credenti e no, ci commuoviamo e ci appassioniamo a questa festa, sempre uguale, sempre identica a se stessa, non è facile da capire.

J.L. Borges diceva che l'abitudine ci dà l'illusione di essere immortali.

Sarà questo il motivo?

Una cosa che mi ricordo delle festività natalizie della mia infanzia è di come fossi convinto di poter essere in grado di controllare l'accendersi e spegnersi pseudo-casuale (ma allora non lo sapevo) delle luci dell'albero di Natale.

Non mi rendevo conto che statisticamente avevo il 50% di possibilità di azzeccarla.

Quelle volte in cui ero in sincrono ero stato io a controllarle, le volte in cui non lo ero, semplicemente non mi ero concentrato abbastanza.

L'idea di non essere onnipotente, oltre che non immortale, non la avevo ancora digerita o assimilata completamente.

A conti fatti, allora ero un po' come quei personaggi dei cartoni animati tipo Will il Coyote che, lanciato in corsa verso il burrone dal razzo ormai spento, supera il dirupo e continua a correre nell'aria come se niente fosse.

Fatto salvo poi, una volta resosi conto dell'esistenza della forza di gravità, cominciare ad essere trascinato inesorabilmente verso il basso.

Ora sono qui, caro Gesù Bambino, in attesa di questo ennesimo Natale, che continuo allegramente questo mio volo sospeso, come direbbe Pascal, fra questi due infiniti.

Ogni tanto, insieme a tutti quanti i miei Fratelli e le mie Sorelle su questa terra, guardandomi attorno per ammirare lo spettacolo, piangendo, ridendo, amando.

Tu però, almeno a Natale, cerca di ricordarci che ci potresti ancora essere tu, quando ci arriveremo, in fondo al burrone.

E che ci aiuterai a non farci troppo male.

di più
editoriale di Bartleboom

Lo dicono in tanti, lo dicono tutti: la musica è sempre più solo un sottofondo.
Si ascolta musica mentre si lavora, si studia, si cucina, si fa la doccia, si fanno le pulizie, si fa all’amore…
Raramente si ascolta musica “e basta”.

Nel mio caso la questione è legata a doppio filo all’annoso problema della massificazione delle rotture di palle.
Sfogliando il mio profilo Lastfm, ho scoperto che ascolto soprattutto la prima metà di ciascun disco. E il motivo è il più banale: tutte le volte che mi metto con la buona volontà e la sacrosanta voglia di ascoltarmi un album dall’inizio alla fine, uno sciame di scocciatori e fresamaroni mi scambiano per uno dei pastorelli di Lourdes e mi si manifestano nelle forme più disparate, finché alzo bandiera bianca e mi metto a fare altro.
E’ un po’ come quando a 12 anni ti chiudevi in bagno con la copertina dell’Espresso e non chiedevi altro che 10 minuti per volerti bene in solitudine. E, invece, in quei 10 minuti capitava di tutto: da “E’ pronto in tavolaaa!”, al tizio che ti telefona per chiederti se vuoi cambiare il salotto, ai testimoni di Geova che fanno gli straordinari alle quattro del giovedì pomeriggio.

A pensarci bene è sconfortante, ma l’unico momento in cui davvero mi godo la musica è quando sono in macchina. Soprattutto quando sono imbottigliato nel traffico.

Ecco, rivendico il mio diritto universale all’ingorgo quotidiano!

Niente di esagerato, per carità. Non voglio mica un incidente mortale, 18 km di coda, la protezione civile che distribuisce le bottiglie da mezzo litro e un collegamento dopo il servizio sui cani a Studio Aperto.
Mi basta anche un ingorghetto piccolino, meglio se di sera, a giornata finita, quando ormai non posso più arrivare in ritardo da nessuna parte. Non una di quelle code stressanti da frizione-prima-frizione-seconda-freno ad libitum.
L’ideale sarebbe, chetò: un carico di shampoo è caduto dal camion e adesso dobbiamo aspettare che si asciughi la schiuma, ci metteremo un’oretta, quindi spegnete i motori, avvertite a casa che arriverete tardi per cena e, se potete, non esagerate con le sigarette.

Penso che per prima cosa manderei un messaggio a chi mi aspetta.
Poi prenderei da sotto il sedile il porta CD e inizierei a sfogliarlo lentamente, come una lista di vini, cercando quello più adatto, da abbinare alla situazione e al mio stato d’animo.
Probabilmente sceglierei uno di quei dischi che non ascolto da tanto. Non troppo brutal, né troppo lagnarock. Qualcosa di ben suonato, da gustare con attenzione.

Spegnerei la macchina e tirerei giù leggermente il finestrino del passeggero.
Farei scorrere il sedile indietro, fino in fondo, e inclinerei leggermente lo schienale.
Allungherei le gambe e infilerei i piedi nello spazio tra i pedali.

E ascolterei.
E basta.

di più
editoriale di zaireeka

Vi devo dire la verità.
Temo che nel fondo della mia mente stia per cadere un tabù.

E' successo sentendo poche parole ad un tg, quelle di una signora veneta, vittima come tante dell'ultima alluvione che ha martoriato il nord-est un po' di giorni fa.
"Basta, non vogliamo più essere presi in giro da Berlusconi e Bossi!".
"Ma come?" faceva l'intervistatore "Anche Bossi? Ma lui difende i vostri interessi, lui vuole la Padania!!"
"Non è vero" ribatteva la signora "pure lui è un mangia mangia che passa tutto il tempo a Roma Ladrona. Basta, secessione!!!" si lamentava.
"Basta, secessione!!!" faceva eco un tipo intervistato più meno nello stesso giorno da un altro tg, questa volta nelle campagne alluvionate del salernitano.

Che vi devo dire, a dispetto della pioggia che si impegna tanto per unirci tutti, anche io comincio a convincermi che quella sia la strada giusta, ed è paradossale che mi succeda nel 150esimo anniversario dell'unità d'Italia.

Ed ecco qui la mia proposta, che cerca di salvare capra e cavoli.
Tanto per cominciare creiamo una federazione "light" di stati sovrani ed indipendenti.

Cosa accomuna, nello statuto fondativo di questa federazione, tutti questi stati?
Potremmo dire che è la lingua, quella italiana, ma, attenzione, solo come seconda lingua, dato che i dialetti sono molto più pratici per parlare fra gente dello stesso posto.
Insomma, solo questo, niente altro, un po' di italiano imparato a scuola giusto per parlarsi ogni tanto per telefono per sapere come è il tempo dall'altra parte.
Niente istruzione ("per me Masaniello era un grande, altro che quell'omm' e merd' di Mazzini"), niente sanità (che se ne frega uno che vive sulle montagne piemontesi dell'anemia mediterranea), niente difesa ("se a te i libici stanno sulle palle, non è un mio problema, per me sono brava gente").

Un beneficio collaterale che potremmo ottenere dal basare solennemente quel che rimane dell'unità nazionale solo sulla lingua italiana è che la nuova federazione potrebbe invocare in suo nome (della lingua) l'annessione del Canton Ticino, di San Marino e del Vaticano, tutti posti in cui la lingua italiana va per la maggiore, e non solo come seconda lingua.

Poi forse, più in là, a questa federazione potrebbero unirsi anche altri staterelli di lingua italiana, tipo Antigua, e tanti altri, anche di poche centinaia di persone, vaganti e sparsi per il mondo, anche singoli quartieri, tipo Little Italy a New York.
Sarebbe una bella Patria questa, vero?

Una patria molto romantica, all'antica.

L'unico problema è questo.
Saremmo davvero disposti fra qualche anno a farci deportare in massa in un lager cinese o serbo pur di riavere indietro una terra tutta per noi quando in fondo l'abbiamo già?

di più
editoriale di Bartleboom

Se ripenso agli anni ’80 – e mi capita ogni volta che ascolto musica anni ’80, oppure quando mi vendono per nuovo il sound di soggetti come LaRoux, che, a parte il nome, non ha poi nulla di così diverso e originale dalla musica di trent’anni fa – ho spesso la sensazione che i miei anni ’80 si siano fermati
alla primavera del 1983. Non mi è successo niente di particolare, nel 1983; però, è l’anno di cui ho più foto, più testimonianze, più ricordi, e quindi l’anno che mi condanno a rivivere ogni volta che incrocio quelle foto, nelle rare occasioni in cui mi oramai mi capita.

Nel tardo inverno del 1983, assieme ai miei, abbiamo fatto una gita in montagna, per vedere l’ultima neve della stagione, assieme alle cime imbiancate di montagne più suggestive nella stagione fredda che d’estate. Come tutti i cittadini persi in un gita fuori porta, non eravamo organizzati; nessuno di noi era lì per sciare, con doposci-berretti-guanti-maglioni-pantaloni-imbottiti: mio padre veniva dal mare, dire collina era come dire montagna nella sua infanzia, a scalare un cavalcavia ti sentivi un campione di ciclismo, gli sci, nel suo mondo, erano un passatempo per ricchi. Quella montagna, raggiunta nell’inverno dell’83, era il suo esotismo, il suo Everest.

L’unica cosa che avevamo, con noi, giacche pesanti a parte, era la macchina fotografica.

All’uscita della funivia, a duemila metri, mio padre mi disse di mettermi sopra un mucchio di terra ricoperto dalla neve, per farmi una foto, riprendendomi dal basso: da ventisette e passa sono inchiodato lì, con le braccia spalancate, tutto il bianco della neve attorno, ed uno spicchio di azzurro dietro di me. Chi riveda oggi quelle braccia spalancate, potrebbe credere che io stessi simulando il volo, all’altezza delle aquile e a duemila metri sopra il mare: io so invece che quel gesto simulava una pubblicità con Mike Bongiorno e la sua “allegria” in cima al Cervino. Ma taccio, e lascio che chi vede ora creda davvero nell’illusione del volo di un me bambino.

Mi dicono che sabato nevica, e che quella montagna sarà sicuramente sotto la neve.

Rivedo il mio sorriso nella foto, la mia allegria presa in prestito dalla pubblicità di un prodotto che i miei non hanno probabilmente mai comprato, e che non mi sono mai sognato di restituire a  Mike. Rivedo tutto il bianco attorno.

Non c’è nulla che dia l’idea dell’infinito, e del possibile, come il bianco, sia esso uno spazio da riempire con un disegno o una frase, una notte da passare persi nei pensieri nell’attesa di un sonno che non verrà prima dell’alba, un muro su cui appendere un poster o la tua foto. Nulla che assorba tutte le forme che possiamo inventarci, verosimili, probabili ed improbabili, così come il bianco è l’assenza di ogni colore, l’attesa di ogni cosa a venire, un momento senza dimensioni, senza spazio e senza tempo, senza limiti capaci di segnare il prima ed il dopo, il dentro ed il fuori.

Melville vede nel bianco l’infinito di un dio inconoscibile, la prova del mistero che non possiamo svelare. Poe descrive la fine di Gordon Pym perso nel bianco glaciale in cui l’infinito dell’orizzonte marino si incontra con l’infinito del cielo, e l’ignoto si manifesta in tutta la sua vastità. Per Kieslowski il bianco è la somma dei contrari, di ciò che si è dato ed avuto, quell’infinito che per alcuni matematici tende allo zero, all’annullamento delle differenze, del dritto e del rovescio, del sopra e del sotto, del giusto e dell’ingiusto, e, forse, anche del bene e del male. Quella stessa LaRoux di cui scrivevo poco sopra – prima di consumare il bianco residuo del mio foglio word – gira nel suo piccolo un video in cui ogni possibile forma geometrica scaturisce dal bianco e dal vuoto, un vuoto dove il 1983 è accaduto esattamente oggi, mentre me la immagino sul palco di Discoring o in finale al Festivalbar.

Nel mio spazio bianco mi accontento di dare l’illusione di un volo che forse non è mai spiccato, conservando il senso dell’allegria che solo il senso di uno spazio aperto può realmente darti, in quella bianca età che sembra ai più fortunati l’infanzia, in cui tutto è da scrivere e nulla è ancora accaduto.

Sabato nevica, e le catene sono l’ultimo dei miei pensieri.

di più
editoriale di zaireeka

Nel mondo sconosciuto ai più della "filosofia informatica", o della "informatica filosofica" che dir si voglia, esiste un problema cardine noto con il nome de "Il problema della fermata".

In cosa consiste questo problema?

Il concetto è semplice semplice e posso spiegarlo con un esempio.

Prendete un qualsiasi brano mp3 che giace in questo preciso istante sul vostro disco fisso, cambiate la sua estensione da .mp3 a .exe.

Fatto?

Bene, il vostro povero file mp3 è stato testé trasformato in una piccola "applicazioncina software" nuova di zecca.

Ora, prima di fare un bellissimo doppio click con il tasto destro del mouse sullo stesso file per lanciare la vostra nuova applicazione e vedere che succede, fatevi una domanda.

E' possibile trovare in internet un freeware, uno shareware, o un checcosanesoware che, lanciato nel modo giusto e con il giusto input (ad esempio lo stesso mio bel programmino ed il modello del mio laptop), mi dica se il mio bel programmino prima o poi si bloccherà oppure mi manderà il computer in loop e l'unica cosa da fare per fermarlo sarà staccare brutalmente la spina?
E che (questo è veramente importante) sia in grado di rispondere alla stessa domanda per tutti gli altri programmini che posso immaginare di costruire nella stessa maniera?

Pensate di si?

Risposta sbagliata.

In internet si può trovare di tutto, il programma per calcolare la quantità di goccia di pioggia che cadono da una nuvola in base alla sua forma e colore, il numero di cazzate che scriverò dato il numero di bicchieri di vino in eccesso bevuti prima di mettermi alla scrivania (bugia, sono praticamente astemio), e tanto altro.

Questo programma "magico" però non lo troverete mai, doveste anche cercarlo in eterno.
E per il semplice fatto che questo programma non può esistere.

Invero, se questo programma esistesse, è incredibile cosa potremmo sapere e cosa potremmo fare, cose che "voi umani non potete neanche immaginare" (Gnagnera, sto solo scherzando, eh...).

Che c'entra tutto questo con l'amore, vi domanderete?
Ecco, diciamo così, non esiste - alla stessa maniera - un "programma", una regola universale che, dato un cuore, il vostro, ed una qualsiasi persona che nel vostro cuore pensate di far girare, vi dica se il girotondo una volta avviato continuerà per sempre o se un bel giorno si fermerà lasciandovi il cuore in panne (e senza neanche staccare la spina)…

E' una brutta notizia?
Ma no, anche perché, a parte la tematica assurdamente filosofica, non è tanto nuova.

In fondo lo dicevano già Mogol-Battisti tanti anni fa ...


di più
editoriale di kosmogabri

"‪I Modey Lemon irrompono nel tuo stereo, nella tua casa, nelle tue orecchie, nella tua testa. Non ti chiedono il permesso, non ti danno il tempo di prepararti, vanno dritti al punto. La traccia iniziale, "Big Bang", è esattamente quello che ti puoi aspettare dal titolo: un'improvvisa esplosione.
Se questa fosse stata la colonna sonora dell'origine dell'universo sono sicura che il mondo sarebbe un posto migliore.‬
"

(Modey Lemon‬ - s/t (2001), recensione di Trellheim)

... ci manchi.

di più
editoriale di ilfreddo

In un indefinito e spero lontano futuro starò con tutta probabilità in una bara.

Belle corone di fiori da chissà quanti euro ai piedi dell’altare. Poco importa che in vita il solo pensare di essere, assieme ai miei miliardi di fratelli, il prodotto di un’entità perfetta mi avesse sempre fatto ridere. E non per mancanza di rispetto verso chi crede. Ma perché dal mio punto di vista bastava guardarsi in giro per realizzare che, nel caso di creazione superiore, doveva essere stata davvero una giornataccia: di quelle da 3/10 ai liberi! Invidiavo davvero chi credeva alle favole e talvolta avrei voluto provarci anch’io. Immaginavo infatti che potesse essere una formidabile stampella alla quale poggiarsi quando le cose non andavano lì, nella giusta direzione. Ciò non toglie che quando pensavo al dopo la morte per quanto mi sforzassi vedevo solo vermi che uscivano dalle orbite. E sapete una cosa? Avevo ragione.

In questa chiesa, dove per quel giorno sarò il piatto forte, tutto sarà al suo posto. Lacrime, occhiali ed abiti scuri. Dopo un’ora costruita per regalare un’appagante e falso ricordo di ciò che non sono mai stato uscirò sulle spalle di amici colpiti da un vero dolore. Che voglio immaginare essere silenzioso. Fin qui tutto bene. Ma poco prima di finire nella macchina arriverà anche quel terrificante rumore ed è di questo che voglio parlare.

A piccole dosi sarà anche utile, ma oramai è presente ovunque. Se fosse sterco, sarebbe merda di elefante stitico quella che riempie la nostra vita. La politica potrebbe tranquillamente cambiare nome in retorica, la televisione con rare eccezioni pure. Film e scritti ne sono spesso pieni per non parlare del fare quotidiano. Anche queste righe che ho cercato di strizzare più volte ne contengono.

Io quindi posso accettare tranquillamente in una situazione del genere i fiori ed i pensieri al miele poggiati sul legno cerato, il finire in una chiesa pur non credendo per contentare parenti, i racconti revival strappalacrime, il trasformare per un’ora la mia esistenza nel ricordo di un uomo esemplare che mancherà davvero alla comunità. Posso perfino far finta di credere ai visi scuri di gente semi sconosciuta che dietro quella maschera da attore di serie B penserà all’appuntamento saltato con l’amante nel pomeriggio. Ma a tutto c’è un limite.

Mi dispiace quindi solo che in quel momento non potrò essere Lazzaro. Per poter insultare pesantemente tutti coloro che, non paghi, si spelleranno pure le mani con forza.

di più
editoriale di fosca

Ormai un anno fa e oltre, mi fu chiesto un contributo per apportare il punto di vista femminile a questo spazio. Differenza di percezione e reazione, modus vivendi o che altro? Punti di vista. Bene.
Allora oggi parlerò di una cosa a te, uomo, sconosciuta, ma che noi donne conosciamo fin troppo bene.
Hai presente un mal di testa che ti prende di colpo e ti regala la magnifica sensazione di avere due morsetti con tanto di vite ai lati delle tempie che manco Frankenstein? E al contempo la presenza di uno scellerato che ogni minuto della giornata e sottolineo ogni, si diverte a girarti le due viti stringendone le ganasce? Se mi si allungasse la testa come un melone, non me ne stupirei.
Ecco, questa è la splendida sensazione che ogni mese, per due giorni di fila e continuativamente, ci attanaglia grazie al fatto di essere donne e avere le ovaie al posto delle tue gonadi.
E non c'è analgesico, droga o scusa che tenga. Lui è lì. Fisso, impettito, puntuale e tenace. Non molla.
A te schizza la testa per tutte le pareti di casa e ufficio e lui niente, impavido che preme sempre di più.
E in più i simpatici ometti che ti frullano intorno, e che te la sfrullano, ti sfottono pure: "Ah quatzo, voi donne in questi giorni siete intrattabili!". Prova tu, ad esempio, a stare col morsetto alle tempie per 48 ore di fila ogni mese e intanto fare la donna, il che vuol dire pensare ed essere multi-tasking e un po’ frenetica, con pause durante l’intera giornata (il cui termine avviene quando svieni sul divano non prima delle ore 22), che non durano mai più di tre minuti (che è giusto il tempo per riuscire a non orinare dentro le calze di nylon, che poi con l'effetto guaina non ti dico).

E sto parlando solo della famosa e temuta sindrome PRE, tre piccole lettere che messe insieme sortiscono l'effetto di una Bomba H in pieno centro a Manhattan alla vigilia del Santo Natale.
Ed è solo l'inizio, perché dopo il pre arriva anche il resto fino al post, con tutto il suo carico di disagio, dolore e corse in bagno che nemmeno Mennea. E parliamo di parità dei diritti?

Non ci sarà mai parità dei diritti finché non proverai anche tu, “Rocky”, la sensazione spettacolare di avere uno sfilatino di cotone inter coscia per tutta la settimana mentre, stando male, nel frattempo porti avanti la tua vita e mentre qualcuno, in contemporanea, ti sfrantega la uallera per un'infinità di motivi.
Voi uomini ed il vostro “dramma del raffreddore”.

Rassegnatevi, il nostro fisico è stato progettato per partorire e per sopportare una sofferenza che a voi resterà sempre sconosciuta: non ci sono artifici di anni di palestra che tengano, il nostro fisico (e quindi anche la nostra “centrale operativa”) è una macchina più efficiente della vostra. Comunque.
E almeno per un 70% del popolo femminile, raramente le nostre lamentele sono vane e senza fondamento. Quanto meno quelle fisiche.
E' bene che tu sappia, uomo, che probabilmente il vero personaggio che ha ispirato Rambo era donna, e che sicuramente, aveva le mestruazioni.

di più
editoriale di ilfreddo

Mi piace la peperonata, ma non la digerisco molto bene la sera. Il fatto è che me ne pento solo dopo.

Lo spunto nasce da una considerazione apparentemente banale, ma per nulla stupida, fatta da un de-utente poco tempo fa. Riassumendo brutalmente la sua spremuta di polpo: “La qualità della vita è tendenzialmente cresciuta nei secoli e millenni“. In effetti devo ammettere che rispetto a quando eravamo molto più bassi, gobbi e pelosi ne abbiamo fatti di chilometri. Diciamo pure che ci hanno tirato un bel calcio in culo e che questo ci ha proiettati sempre più in alto.

Ma il punto di vista che vorrei proporre è un altro. Ritenete che sarà sempre così e che il 2... o il 3... sarà un posto migliore rispetto a quello attuale? E soprattutto credete che alla maggior parte di questi miliardi di bipedi attuali (compreso chi scrive ovviamente) gliene freghi qualcosa del futuro che non vedranno mai?

A parole, a differenza dei secoli scorsi, di sicuro ci teniamo. Un casino.

Lo sviluppo sostenibile è la definizione più “in” dalla seconda metà dell’ultimo secolo. Un commando di parole accuratamente studiate e ben assortite per dire, in modo fumoso, opinabile e rivoltabile come un calzino, che ci deve essere una generica ottica di lungo periodo nello stile di vita attuale per poter instaurare un idilliaco ed onesto rapporto intergenerazionale. Cosa voglia dire in atti pratici non si sa, ma poi si continua sostenendo che non siamo i proprietari delle risorse planetarie e bla bla bla. Sotto il muschio della retorica, tra le umidi radici di meeting tra i leader più potenti del globo, ecco quindi spuntare termini meravigliosi e radiosi quali finanza sostenibile, turismo sostenibile, lotta al cambiamento climatico, consumo sostenibile, etica nella politica, guerra senza quartiere al razzismo e a qualsiasi tipo di discriminazione. Pace nel mondo e volemose bene.

Non conosco una persona che mi abbia mai detto seriamente: “sì, sono razzista“. Però più di pochi e meno di molti, inerpicandosi su una strada lunga e densa di tornanti a U, mi hanno snocciolato negli anni discorsi il cui riassunto, limato di diversi paraculi incisi, è più o meno il seguente. “Io non ho nessun pregiudizio, sia ben chiaro. Tutti per me sono uguali, ci mancherebbe, ma se mia figlia si sposasse un "negro"/se mio figlio diventasse frocio …”.
Pii paesani vanno a messa vestiti bene ogni domenica in fila indiana. Si vede che è vera fede quella che fa raspare sonoramente le suole del mio ex compagno di classe. Finita la funzione mette in pratica con fervore l'omelia con alzate di gomiti nel bar dietro l’abside con due bestemmie a frase. Una per aprirla, e l’altra per chiuderla: ci vuole una certa prassi, una certa metodologia. Nel linguaggio, intendo.
In Italia non c’è lavoro, mi informa mio zio 72enne che non vuole andare ancora in pensione. Forse lo farà quando diventerà vecchio, mi dice. Adesso deve pur vivere e prendersi il suo stipendio che candidamente afferma non essere male e che così, ad occhio e croce, guardando il vestiario dovrebbe far ingrassare almeno cinque neo laureati. Per lei invece, quella che da quando è andata in pensione lavora in nero per tutti i capelli delle signore del paese, il vero problema dell’Italia è che nessuno paga le tasse. Però anche l’ambiente è da tutelare, mi ammonisce l’altro che subito dopo decanta la bellezza della giornata a Parigi testé trascorsa con un low cost andata e ritorno in poche ore. Un bel pugno di anidride carbonica sicuramente ben speso: le foto, cazzo, parlano chiaro.

Ora potrei chiudere dicendo che tutti noi possiamo, anzi dobbiamo, fare qualcosa per cambiare questo status aggiungendo pure un pizzico di enfasi con il tremendo l’avverbio veramente posto subito prima del punto. Ma io dalla finestra asini tra le nuvole non li vedo proprio scalciare e librarsi nell‘aria. Saranno gli occhiali sporchi, non so. Piove e quella che scende e pungola il mio braccio, ora ben steso, parrebbe proprio acqua fredda: gocce di cioccolato non ne scruto e non credo nemmeno che ne scenderanno mai.

Invece di assimilare, rendere proprie o anche solo accettare passivamente mendaci buoni propositi e definizioni da Babbo Natale non sarebbe meglio stare in silenzio? Ammettere con la lingua immobile imprigionata dai denti che il presente che ci fa tanto schifo siamo soliti spiegarlo/giustificarlo nello stesso ignobile modo che ho fatto io poche righe fa? Un frutto marcio dell’operato stronzo del vicino, dello sconosciuto, della massa, ma anche dell’amico, del parente o di chi è già concime per i vermi da tempo; comunque sia non nostro. Ammettiamo con le labbra cucite che, con ogni probabilità, avremo l'immeritata fortuna di pagare in minima parte dei comportamenti personali riconducibili alla nostra generazione e che quindi, per quanto questo possa sembrare una battuta non riuscita capace di ghiacciare una serata festaiola, ci è andata perfino di lusso. Perché la forza di quel calcio in culo di cui vi ho parlato all'inizio sta scemando e si sta per scendere. Quello che lasceremo in eredità proviamo a guardarlo: vi sembra un cielo azzurro? E allora stiamo almeno zitti.

Ma forse sono solo un mucchio fumante di cazzate senza capo né coda e quindi non scagliatevi troppo su di me. La colpa non è mia: ma della peperonata, sia ben inteso.

di più