editoriale di telespallabob

Ronan O'Gara è nato a San Diego, in California, da genitori irlandesi originari di Cork. Una città bellissima, affascinante. E' la capitale di una delle quattro province storiche d'Irlanda, il Munster, ma è soprattutto il luogo dove si respira, più di ogni altro, quello spirito denominato “Proud to be Irish”. La gente di Cork ha nelle vene il sangue di Micheal Collins e dei combattenti dell'IRA. Vivere in luoghi così ti forma e ti fa sentire un tutt'uno con la propria terra e questo plasma il giovane Ronan che tra una scuola e l'altra diventa una promessa del Rugby irlandese.

Il mondo ovale irlandese è gestito in modo molto particolare: prima di tutto non esiste la distinzione tra Eire ed Irlanda del Nord (prima delle partite viene suonato un inno apposta, "Ireland's Call") ed inoltre la IRFU organizza il professionismo attraverso le quattro province storiche (Connacht, Leinster, Munster ed Ulster). Il Connacht rappresenta la squadra sperimentale, quella dove vengono mandate le giovani promesse prima di finire al Munster o al Leinster secondo il proprio ruolo: a Limerick i giocatori di mischia, a Dublino i tre-quarti. Almeno in teoria. In pratica, per quanto ci siano interessi ed ingerenze, c'è chi non obbedisce a queste logiche e così fa O'Gara che resta al Munster, diventandone una bandiera. In poco tempo conquista il posto anche in nazionale e diventa uno dei migliori interpreti al mondo nel suo ruolo.

O'Gara oggi ha 34 anni, naturalmente continua a giocare. Nel Munster come nell'Irlanda, con un differenza. A Limerick è ancora il leader di una squadra che con il suo pubblico e la sua micidiale mischia mette in crisi mezz'Europa. In Nazionale ha perso il posto da titolare, scalzato da Jonathan Sexton. E' il mediano d'apertura del Leinster. Hanno caratteristiche e modi di giocare molto diversi ma quest'ultimo ha dalla sua l'età (26 anni) e la “Rugby World Cup” di Settembre rappresenta la grande occasione per la maturità. Ronan lo sa fin troppo bene ed accetta la panchina. Non pretende il ruolo di primo piano solo per i meriti passati, capisce che c'è un momento in cui bisogna fare un passo indietro e lasciare spazio. Sa che in momenti difficili bisogna essere pronti e dimostrare di essere grandi dentro. Non si può avere sempre vent'anni. Bisogna sfruttare al massimo ogni età, accettare il corso del tempo ma non per questo si deve rinunciare ai propri valori e alle proprie idee.

L'anno nuovo coincide con un altro “6 Nations”: al Flaminio si gioca Italia-Irlanda, la partita è in bilico. Declan Kidney, head coach dell'Irlanda, si gioca la carta dell'esperienza nel finale e sotto questo aspetto chi meglio di O'Gara? Ronan entra, è fresco e sa cosa fare ma i suoi compagni soffrono le incursioni degli avanti azzurri che al momento giusto aprono ai tre-quarti: è la meta italiana. Mirko Bergamasco non trasforma, 11-10. Basterebbe un piazzato per rimontare ma prima c'è da recuperare il pallone, fortuna vuole che gli avversari lo regalano ingenuamente. O'Gara pensa al drop e i compagni di squadra lo mettono nelle condizione giuste: ora è solo un suo problema. Al '78 Italia 11- Irlanda 13, drop di O'Gara. Il risultato non cambia più. Diventa l'eroe del sabato ma nelle interviste non si auto-elogia, non tenta di sconvolgere le gerarchie. Parla della lucidità del gruppo e dell'importanza della vittoria. E' cosciente che sabato prossimo il titolare sarà Sexton e lui dovrà essere a bordo-campo, pronto in caso di bisogno.

In verità Ronan O'Gara è un passionale, dal carattere irriverente ed orgoglioso. Non sopporta né Sexton né la panchina e sta approfittando dell'ottimo “6 Nations” disputato fin ora (contro la Scozia è stato premiato come “Man of the Match”) per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, con dichiarazioni taglienti ed ironiche. Ciononostante gli sono affezionato, adoro vederlo giocare e mi divertono i suoi “colpi di testa”.

Dedico questo mio scritto agli “anziani” del CUS Brescia Rugby. Compagni di squadra meravigliosi, anche nei loro difetti. Sempre pronti a farti capire come stare al mondo, prima di tutto. Anche del campo.
Speciali come Ronan O'Gara.

(nella foto: Ronan O'Gara conversa amabilmente con Queen Elizabeth II)  di più
editoriale di zaireeka

Se, un lunedì mattina di fine febbraio, aprendo l'edizione in rete di uno dei quotidiani più prestigiosi di questo Paese (per giunta di "opposizione"), ti trovi davanti una prima pagina di questo tipo:

"Libia nel caos. E' guerra civile. Gheddafi in fuga!". E subito sotto: "Roma del caos. Ranieri si è dimesso!".

… significa che qualcosa effettivamente non va. E non solo qualcosa.

Che questo Paese si trovi ormai a galleggiare in un meraviglioso cocktail fatto non solo di perdita del senso della misura (altrimenti come è possibile usare gli stessi termini per parlare di una guerra civile e della crisi di una squadra di calcio) ma anche di continue prove di instaurazione di un quasi-regime (a mio avviso, sull'onda dello scandalo Ruby, ora ci stiamo avvicinando davvero) ne avevo avuto ulteriore conferma ieri (20 febbraio, n.d.r.), nel primo pomeriggio, assistendo a qualche minuto di Domenica In.
In particolare al linciaggio in diretta tv di Michele Santoro (e di tutto lo staff di Anno Zero), reo di aver "cavalcato" e "strumentalizzato" le dichiarazioni fatte al "Se non ora, quando?" day da tale Emma, mia corregionale, neo-stellina del mondo canterino, seconda classificata insieme ai Modà dell'ultimo festival di San Remo .

Linciaggio, cosa assai grave, non solo ad opera di noti lacchè del potere, ma addirittura di una persona solitamente composta ed equilibrata quale Marino Bartoletti (da Giletti me lo potevo aspettare, da lui, no).

Come dire, al di là delle responsabilità di Santoro, il messaggio al Popolo dato dalla televisione di stato è stato comunque uno: "dagli all'untore".

Siamo davvero sull'orlo di un nuovo fascismo in doppio-petto?
Dobbiamo augurarci che scoppi davvero una guerra civile per svegliarci tutti, come voleva Monicelli o come vaticinava anni fa Moretti?
Non sarebbe male, anche considerando che una delle cose che mi ha più commosso negli ultimi tempi è stata quella che è successa durante l'ultima guerra civile in Egitto, con il popolo spontaneamente auto-organizzatosi a proteggere i tesori all'interno del museo egizio del Cairo dagli sciacalli.
Una pagina bellissima, di cui il "nuovo" Egitto dovrebbe andare (e probabilmente va) fiero.

Non sarebbe bello e commovente, anche da noi, per una volta vedere insieme tutto il popolo, i seguaci di Fini, Di Pietro e Berlusconi, smettere di tirarsi contro i soliti slogan come ad una partita di calcio e fare insieme le barricate per impedire a ladri e teppisti di saccheggiare i nostri tesori del Museo degli Uffizi o della Basilica di Massenzio?

In questo editoriale. non so se si è capito, ho perso anche io il senso della misura.
A proposito, tornando a parlare dei disordini libici a cui ho fatto riferimento all'inizio, non è forse il tempo di nuovo maturo e propizio, dopo più di sessant'anni, per approfittarne, e per pensare di riprenderci quello che un tempo era nostro sull'altra sponda del Mediterraneo?

Ma non ditelo a La Russa, altrimenti lo fa veramente.

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editoriale di fosca

Oggi facciamo un po' di inutile e sano gossip pecoreccio, come direbbe qualcuno dei miei de-amati qui.
Mettiamo da parte la politica e il vecchio nano col priapismo e parliamo di Starlettes e Vips (Vituperanti Imbecilli Porta Sconforto) del Semper Deus Ex Machina, la Tv.
Questi personaggi che, ricoperti da un alone di fama e fantomatico mistero allo stesso modo in cui, meno allegramente, lo sono i gabbiani quando planano sul petrolio, dimenticano la loro condizione di esseri umani per auto-assurgere a quella di SemiDei, condizione che stava già sulle balle sia agli umani sia agli Dei migliaia di anni fa, figuriamoci oggi nell'era modèèèrna!

Quindi, parliamo di soubrettes straniere bionde italianizzate e della loro vita dentro e fuori dallo schermo. Parliamo di come l'una influenzi e stravolga l'altra, fino a portare questi esimi Premi Nobel a credere di essere davvero speciali e pertanto diversi, da noi non-illustri mortali, al punto di poter fare tutto il beato cazzo che vogliono. E mi scuso se ho detto beato.

Ma poi, alone di fama de che? Parliamone.
Se essere pagate per fare comparsate settimanali in alcuni dei programmi pomeridiani più inutili perfino per le casalinghe cui son rivolti e per le quali sono pensati, (palinseeestoooo!) senza esprimere mai un valido parere ma semplicemente facendo l'occhiolino e le faccette buffe, può definirsi avere una "carriera di successo" allora ok, stiamo parlando di fama nazionale.
Stiamo parlando di persone che, senza un talento reale (non ballano, non cantano, non recitano, non presentano, non scrivono e non hanno mai un parere che non sia scritto da altri sul gobbo e così via), hanno solo una nazionalità diversa sul passaporto, delle buone conoscenze personali e sotto la chioma bionda un cervello dormiente che fa dire, in un italiano caro al più noto Don Lurio, idiozie lapalissiane senza peso ma pagate evidentemente a peso d'oro, se paragonati ad uno stipendio medio di un'occupazione normale.

Voi direte "... e chissene, dove sta la novità?" ed in effetti la novità non c'è, eccetto per chi, come me, ha l'enorme fortuna di condividere, con questi personaggi, gli spazi vitali in una convivenza condominiale ai limiti del miglior Almodovar più scatenato, con sfumature incivili al limite del grottesco. Sì, perché la famiglia felice - ipercefala soubrette, arrogantissimo marito fashion victim yuppie/trash imprenditore in carriera, multiprole, animali domestici e servitù (ovviamente) - vive ad un piano di differenza dal mio e le pareti dei nostri reciproci focolari domestici sono contigue, come le nostre incomparabili vite in reciproca collisione. Il che purtroppo rende la famiglia della sottoscritta partecipe della loro che continua a regalarci spunti tutt’altro che piccanti, confezionati con la maleducazione più becera.
Ma in fondo, suvvia, è forse una colpa se non hanno un lavoro "normale" (serio?) ma vanno a dormire quando normalmente gli altri sono in fase r.e.m.?
Se amano fare la lavatrice alle tre del mattino (con la centrifuga che parte sempre mentre tu sei in fase r.e.m.) per avere il bucato pronto alle dieci?
Se non si curano della raccolta differenziata per cui qualcun altro deve sempre mettere mano nella loro monnezza per evitare le multe al condominio, cercando di pensare forse anche all'ambiente?
Se amano parcheggiare sempre il macchinone sotto casa ma fuori dagli spazi, sulle strisce pedonali ed in curva ogni santo giorno?
Se ogni sera le urla ed il lancio delle sedie da parte della giovanissima prole si protraggono fino oltre la mezzanotte creando disagio a tutti i vicini minchioni?
Se occupano tutti gli spazi comuni con oggetti di loro proprietà come passeggini, biciclette, scatoloni, trattorini e scatole vuote di pannoloni new generation?
Se i loro animali hanno la loro gran personalità per cui non ce la si fa a tenerli buoni in casa ma vengono lasciati liberi di scorrazzare e rumoreggiare per le scale e tutti gli spazi a loro piacimento?
Se sono liberi di comunicarsi, urlando per la tromba delle scale, qualsiasi importante informazione a qualunque ora del giorno e della sera?
Se il tempo passa per tutti con la sua promessa di rughe sul viso e lei non ce la fa ad accettarlo perché è VIP e lui la insulta a gran voce perché osa chiedergli i soldi per la chirurgia estetica?
Se infine non si può rivolgere loro parola perché lei "... no capiscie beni taliani." e lui ti fa mandare lettere dall'Avvocato anche per dire "...ascensoreee?"? Ovviamente le lettere di lamentele da parte dei condomini sono invece ignorate.

Insomma, essere VIPS comporta tutta una serie di responsabilità che noi poveretti non possiamo nemmeno immaginare.
Non c'è tempo per essere normali. Non c'è tempo per essere educati e avere senso civico.
Non c'è tempo per le piccole cose del vivere quotidiano, per il rispetto di quelli come noi, con un lavoro semplice, spesso sfigato e assolutamente rompipalle; per quelli con una vita il cui apice di tensione è l'aumento dei surgelati all'Esselunga o lo straordinario non riconosciuto in busta paga.

Alla fine sapete però che vi dico? Vi dico… beati noi, beati, eccheccazzo!

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editoriale di ilfreddo

Il succo di polipo che ho bevuto sfogliando il paese delle Banane, stropicciando l’invenzione di Guttenberg e prendendo un pacco veloce poco prima di cena mi ha fatto sgranchire i neuroni e pensare.

L’orchestra da qualche tempo mostra evidenti problemi di sincronia e musicalità. La melodia che genera, unghie di Nightmare su una pentola ruvida. Gli strumentisti vetusti non mollano il posto ed i rincalzi sono lì che aspettano. Qualcuno di loro si incazza perché non capisce il motivo per cui le sue dita veloci debbano essere preferite a quelle lì, incerte e nodose, che si attorcigliano e si impantanano goffe sugli spartiti. Ci sarebbe da lavorare sugli archi, sugli ottoni, sul tempismo e forse bisognerebbe cambiare pure alcuni strumenti. Vecchi di decenni e mai puliti, usurati ormai irrimediabilmente. Insomma per il direttore ci sarebbe un gran da fare, ma invece di provare e riprovare i pezzi più tortuosi e ricomporre la preziosa sintonia nell’orchestra spreca tanto tempo sui triangoli: strumenti indubbiamente carini e ammiccanti, ma di contorno e quasi insignificanti nel risultato melodico complessivo. Nella concitazione degli eventi e delle prove, vista l'imminenza dello spettacolo, di quei triangoli sbattuti con veemenza dal direttore con una bacchetta dallo strano colore blue nessuno se ne cura. Nessuno li sente. Finché il polipo di cui sopra non starnuta su un pezzo di carta: solo allora quel lieve tintinnio, magia, diventa un urlo in un megafono.

Stupore, vergogna, biasimo, indifferenza, minimizzazione e strenua difesa si attorcigliano come edera rampicante su un muro infinito capace di oltrepassa perfino i confini nazionali e l'oceano.

Le rivelazioni, sempre che siano confermate direbbe un Diavolo non troppo grande, potranno anche indignare ma personalmente mi paiono assumere i connotati e le fattezze del soldato sopravvissuto alla battaglia di Maratona. Costui nel febbraio 2011 arriva ansimante dopo 42 km e 195 m per dirmi, poco prima di morire asciugato di ogni energia: “la Terra non è piatta!”

Sarà che ho raggiunto la saturazione. In questo quotidiano piatto di salgemma che mangerò anche stasera, un mezzo chilo di sale in più non lo sentirò nemmeno. Le papille gustative sono morte da tempo. Ho perso in questi anni di orchestre sbilenche e stonate ogni cosa. Chiavi di casa e punti di riferimento per orientarmi, capacità di esprimermi, di amare, di dormire. Speranza e perfino stupore.

Più spremevo questi tentacoli passandomeli sulle dita e più si è palesato un pensiero banale, ma a mio modo di vedere importante.

Non accettare l’invecchiamento, procrastinare l’inevitabile e continuare a fare i Peter Pan è un problema assai comune nella nostra società; basta svolgere lo sguardo anche distrattamente in una giornata qualunque. Oggi può andare bene. Ed è sufficiente buttare un occhio distratto mica troppo lontano: l’ufficio dove lavorate, la palestra dove bruciate, il bar e perfino la casa dove vivete. E’ tristemente vero affermare che molti, quelli che applaudiranno alla fine dell‘esecuzione a prescindere, farebbero carte false per essere lì, alla sua età, a suonare fino al definitivo piattume cardiaco quei tre gran pezzi di metallo con la loro bacchetta blue presa in farmacia.

E quindi, mentre chiudo questo polipo ormai morente, sento che il sentimento che prevale, alla notizia che l’ambo uscito sulla ruota di Roma è un 69 unito con un 74, è pura e semplice pena.

Mi ritrovo poi a ridere amaramente al pensiero che sta orchestra malconcia e sgarruppata rischi di cadere davvero non per le percussioni titubanti, per le melodie sbilenche, gli ottoni stridenti, i fiati spompati, i violini spenti, gli strumenti decadenti e la mediocrità stessa dei musicisti, ma per dei fottuti ed inutili triangolini che esaltano il direttore.
Fatale luce elettrica per una zanzara in una notte d’estate. Ma non abbiate timore, son certo che arriverà Bruce Willis a spegnerla ancora una volta. Proprio appena in tempo come si confà ad un eroe alla fine del film.

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editoriale di fosca

Ci sono molti modi per dare voce al proprio pensiero, per esprimere dissenso o approvazione verso qualcosa che non necessariamente deve essere dato per scontato.

Si può parlare con voce pacata, si può urlare, si può fare della sottile ironia, si può litigare; ma si può anche stare in silenzio, ad ascoltare, in un confronto creativo e costruttivo insieme ad altri che come te la pensano in quel modo. E si può semplicemente essere presenti, fisicamente e moralmente.

Questo in poche parole è quanto è accaduto ieri pomeriggio in molte delle più importanti piazze delle più grandi città d'Italia e d'Europa, sotto una pioggia fine ed insistente che ha concesso poca tregua inzuppando i vestiti in profondità ma che non ha smorzato gli animi pacatamente accesi delle Donne e dei loro amici e compagni che la pensano come loro.

E' stata una "festa educata", condivisa da migliaia di persone che a perdita d'occhio si snodavano come un enorme serpente multiforme e multicolore tra le vie principali del centro di Milano, nel mio caso, e contemporaneamente in altri centri altrettanto colorati di altri confini, tra bandiere, cartelli, slogan, sciarpe rigorosamente ma non necessariamente bianche, fiori ed ombrelli di tutte le grandezze.

E' stato tanto emozionante quanto importante esserci, sentire condiviso un pensiero così netto, preciso, sicuro eppure tanto semplice.

Non solo per i 50 anni di evoluzione (purtroppo non sempre) di Storia al Femminile ma anche per il pensiero più comune che non ha bisogno di essere frammentato attraverso le diverse vicissitudini storiche, cronologiche, geografiche o politiche, perché sempre lo stesso, sempre tale, e cioè il pensiero dell'uguale Diritto e della Dignità (della Donna) come persona, a prescindere da tutto.

Questo è stato il respiro comune di un enorme polmone fatto di gente di tutte le razze ed età, ceto ed estrazione sociale, livello culturale ed emotivo, durante quella che è stata una festa vera e propria a tutti gli effetti, in cui si è ascoltato, chiacchierato, riso, urlato, ballato, raccontato storie e raccolto pareri dalle sfumature più diverse ma tutte all'insegna dell'educazione e del buon senso...

Non ho mai visto una folla tanto educata.

Persone che, muovendosi con difficoltà tra i pochi sentieri concessi da quel muro di corpi stretti, chiedevano permesso scusandosi e sorridendo come se si conoscessero tutti: mamme, figlie, insegnanti, nonne, impiegate, dirigenti, casalinghe, teenagers, punkabbestia, tutte presenti perché ugualmente arrabbiate ma felici di essere lì accanto ai loro compagni, amici e parenti.

Per un attimo mi è sembrato di essere ad uno dei più importanti concerti della mia vita, tutti stretti pigiati davanti ad un palco, con la nota voglia di condividere un evento comune verso una passione comune. Ma mentre davanti al palco di un live in fondo in fondo si tende a prevaricare l'altro per avere il posto migliore, la visuale più ampia e catturare il suono più pulito, lì l'importante era evidentemente, semplicemente essere presenti, vicini, corpo compatto che facesse muro e numero, senza distinzione di posto e senza biglietto.

Aldilà di com'è andata e di come andrà, e di come la racconteranno e la stanno già raccontando, penso sia importante sapere com'è stato e perché, senza false storpiature, e raccontarlo a chi importasse ancora dibattere di buon senso, Costituzione e Diritti Civili.

Perché come diceva Qualcuno "La Libertà è partecipazione".

(immagine by fsk) di più
editoriale di MorgueOfAbsinth

Maria ha 90 anni. Una vita agra, costellata di morti come una coperta rimasta troppo tempo accanto ad un fuoco e cosparsa di buchi lasciati da troppi tizzoni ribelli, minuti ed incandescenti. Il nome del territorio su cui è stata posta dal destino regala, da solo, una ventata di amarezza: Cjargne, nome arcigno, nome impastato della stessa roccia da cui deriva. Un nome, Carnia, che ha tanti etimologici fratelli quanti sono i molteplici fenomeni carsici, rappresentanti ferite sul dorso della terra: foibe, doline, inghiottitoi, campi solcati, fori di dissoluzione. Maria ha passato l’intera sua esistenza in un luogo legato, nel nome e nel suo stesso essere, a enormi fori che hanno mangiato vivi uomini e donne e a buchi infimi che hanno bevuto il sangue di stirpi di soldati.
In un paese carnico (Damâr, Preon? ma che importanza ha?) ha visto morire il marito e quattro dei suoi sei figli; ha visto la vita scorrere in novanta rotazioni stagionali, accompagnata da gesti antichi perfezionati dal loro continuo esercizio e segnata da lavori faticosi, aspri, durissimi. Il suo volto risplende di rughe appena accennate, i suoi occhi brillano ironici quando rispondono al saluto del nipote, mentre la mano risponde a modo suo, abbattendosi lieve sopra le orecchie del canaj. Nerovestita, come si dice sia la morte, Maria è un’icona di vita, di misurata vitalità. Un professore universitario probabilmente sorriderebbe compiaciuto davanti alla semplicità della vecchia. Non sa che Maria, dieci anni prima, ha lasciato basito un suo simile durante la cerimonia di laurea della nipote. “Allora, signorina, io e lei reagiremmo in un modo ben diverso rispetto ad un contadino all’annuncio di una nostra ipotetica malattia oncologica. La nostra cultura ci pone su un piano di reazione differente. O sbaglio?”. Al che Maria: “Lei reagirebbe come farei io: l’arroganza non aiuta, davanti alla malattia. Neppure se l’ha studiata.”.
E così prosegue, leggera come gli scufons sulla neve, accompagnata da una saggezza profonda perché nativa, non imparata o costruita, tanto semplice quanto radicata come quegli alberi che emergono dalla terra e si immergono nella terra in equivalenti proporzioni.

Il 13 ottobre 2010 Maria si inoltra nel bosco in cerca di castagne. Riempie il suo sacco di iuta, senza badare all’approssimarsi del tramonto e all’entità della strada percorsa. Giunge la notte. Perde la via fino ad ora percorsa. Smarrirsi nel bosco è un’esperienza angosciante. Nord, sud, est, ovest. Il muschio è ubiquitario. Non puoi seguire il cammino del sole. Destra, sinistra, sopra, sotto diventano categorie assurde, compenetrate l’una nell’altra in un caos che opprime il petto, fa capovolgere la testa e che genera nella mente pazzi spiritelli ingovernabili. In più l’autunno carnico può essere rigido, a volte mortale. Maria non teme lo spettro degli zero gradi, non il fantasma del terrore irrazionale del bosco, non il profilo della morte. Un sapiente riparo di foglie secche e rami, il suo vestire sobrio e adatto ai rigori del freddo e, soprattutto, un animo protetto in pari misura da fede, ironia, coraggio, forza e consapevolezza. Altro non serve a Maria per attendere l’alba e con essa i soccorsi, guidati dal nipote, disperato tanto quanto lei era tranquilla.

Vieni, nonna, ti portiamo subito all’ospedale.
E invece aspetti. Tutta la notte qui fuori per un sacco di castagne e vuoi che le lasci ai cinghiali?

Ho letto in questi giorni di Elisa Benedetti, la ragazza di 25 anni morta di ipotermia in un bosco a dieci chilometri da Perugia: in preda al panico non ha saputo trarsi fuori da quella che è diventata una tragedia. Una ragazza dalla vita normale, dicono. Studi, un fidanzato, un bancomat, probabilmente nessun problema di denaro. Con qualche sbandata per droga e alcool.

La sua triste morte mi ha fatto pensare che, come mi insegna saggiamente l’utente Tomgil, “la verità è che nella vita non c'è sempre bisogno di guardare alle tragedie altrui per avere un'idea di che cosa sia la sofferenza.”. E, come corollario, aggiungerei che dietro un’apparente serenità possono nascere tragedie immani, mentre da tragedie oggettive possono nascere fiori di forza inaudita.
Ho pensato che l’esempio di umili sconosciuti come Maria rappresentano un’iniezione di forza, di rettitudine, di onestà verso la vita.
Ho pensato che, quali che siano le storture dei nostri caratteri, i dolori che ci piovono addosso, i difetti che ci attanagliano, abbiamo il dovere di non cedere fino all’ultimo: per rispetto verso noi stessi, verso la nostra dignità, verso chi ci ama.
Ho pensato che il giudizio negativo nei riguardi delle persone deve essere sospeso se non hai mangiato con loro almeno dieci chili di sale (come dice Rigoni Stern). E dunque paragonare Elisa a Maria, etichettarla come una viziata drogata, incapace di salvarsi la vita perché troppo stupida (cosa che, da vero balordo, ho fatto io, immediatamente) non è solo sbagliato: è soprattutto moralmente ingiusto e malvagio.

Ringrazio Maria per la lezione che è riuscita a darmi. E, pur, non conoscendola, spero che Elisa possa riposare in pace, se non ha potuto farlo da viva.

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editoriale di kosmogabri

Ne ha fatto di strada il piccolo Chicco per finire dentro quella miserabile gabbia metallica: al massimo poteva essere 70 x 70. Gli hanno fatto attraversare stati, deserti, mari, continenti; migliaia di chilometri per arrivare fino a quella maledetta tana, per farlo diventare il classico “souvenir” da mostrare agli amici e curiosi.

Chicco, splendido pennuto grigio proveniente da chissà quale fronda della savana centroafricana, dotato di una splendida coda rossa e di un becco prensile spettacolare, forte e delicato alla bisogna, nei lunghi anni di immeritata prigionia ha imparato a imitare, alla perfezione, i suoni e le voci captate da chiunque gli si parasse di fronte: non avete un’idea di quante volte ho visto i condomini scendere in pigiama a bordo strada pensando ci fosse una raccomandata da ritirare… perché Chicco era in grado di rifare tutto: prima il vespino smarmittato del postino, poi il fischio e infine il cognome a gran voce del malcapitato di turno.

Chicco, oltre essere un amabile mattacchione e un divoratore instancabile di semi di girasole, ci crederete o no, era un devoto fan dell’elettropop dei quattro androidi di Dusseldorf: i Kraftwerk. In particolare si esaltava per il repertorio più arcaico e ostico: ad esempio andava in letterale visibilio - non so se avete presente - per il brano “Antenna”: quei suoni acutissimi, cosmici, tendenti all’infinito quasi a voler creare un ponte transcontinentale per cercare di comunicare con i suoi liberi consimili.

Noi, poco più che bambini, non è che potessimo fare molto per cercare di alleviare la sua ingiusta detenzione: tranne quella volta storica che mio fratello aprì, diciamo così, inavvertitamente l’uscio della gabbia per farci apprezzare la imponente e per noi inedita apertura alare e farlo svolazzare per tutto il quartiere, una tra le poche cose che potevamo fare era spalancare le finestre del soggiorno, smanettare adeguatamente lo sciancato impianto giradischi Philips e, soprattutto, mettere su il consunto vinile del 1975: Chicco per tutta la sera seguente, l’indomani e per chissà quanti giorni consecutivi avrebbe riprodotto, alla assoluta perfezione e senza pietà per tutto il vicinato il repertorio cosmico dei quattro robot mittleuropei.

Qualche inverno fa, uno dei più rigidi degli ultimi anni, Chicco ha smesso di cantare: nonostante non fosse malato ma anzi ancora giovane e forte semplicemente non ha ce l’ha fatta a resistere al freddo ma soprattutto alla fame. La proprietaria, partendo per qualche giorno, dimenticò di lasciare al figlio, che avrebbe dovuto accudire almeno una volta al giorno la povera bestia, quel poco cibo necessario a farlo sopravvivere.

Quel giorno maledetto vi giuro che avrei voluto ficcarci quei due dentro quella gabbia. E sono sicuro che, pur con tutta la disperazione possibile, neanche in coro avrebbero mai saputo rifare “Antenna” come Chicco.

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editoriale di zaireeka

A quanto pare quando, anche questa volta, tutto sarà passato (sarà proprio così secondo certi bene informati), non rimarrà molto da dire e da fare.
In compenso l'Italia passerà all'estero (almeno in certi ambienti) non solo come la solita terra di santi, poeti e navigatori, ma anche come accogliente terra d'adozione e prodiga dispensatrice (basta conoscere le persone giuste) di un gran numero di rappresentati di quella categorie di lavoratrici solitamente note sotto il nome di…

E chissà che non riusciremo a rubare il primato in quanto a fama a vecchie glorie nel campo come Olanda e Thailandia.

Insomma, stasera (mentre scrivo è un sabato di fine gennaio 2011) non ho niente di meglio da fare che mettermi a scrivere dell'argomento di cui si parla di più in questi giorni, specialmente in Italia (oltre al sempreverde "Silvio Berlusconi vs i giudici comunisti"), ovvero di ... puttane, l'oggetto del contendere dell'ultima disputa governo-magistrati.
Sono stato troppo brutale?
Non dovevo nominare Silvio Berlusconi?
Forse, ma voglio andare subito al sodo.
Ed il "sodo" riguarda una domanda che ultimamente mi arrovella "nostalgicamente" la mente.

Come giudicherebbe tutto il casino (mai parola è stata più adeguata) che sta succedendo in questi giorni quel noto anarco-cantautore che rispondeva al nome (e cognome) di Fabrizio De André, se fosse ancora vivo di questi tempi?

Come molti probabilmente sanno, De André era un sincero appassionato dell'argomento in questione (le puttane, da ora in avanti, per eleganza, "escorts"), come anche di giudici del resto, ma di questo parleremo in un'altra puntata.
Allora, cosa avrebbe detto?
Diciamolo, anche De André era un appassionato di "escorts". Ma lui, come molti sanno, a differenza del nostro Premier, usava questa sua passione anche a fini artistici, la sublimava in Arte.

Chi non si ricorda della sua "escort" bambina di Via del Campo? O di quella di Bocca di Rosa. Tutte e due splendidi, amabili, personaggi che sono ormai scolpiti nella nostra memoria. Evangelica la prima, Boccaccesca la seconda.

Insomma, cosa ne avrebbe pensato Faber (mio Dio, come mi mancano le sue parole in questo periodo così povero di poesia oltre che di sana e marmorea indignazione)?

Penso di saperlo, e lo dico anche a costo di voler sembrare mettere in secondo piano, quanto a responsabilità, la figura di quel pover'uomo del nostro premier.
Faber avrebbe pensato a loro, a mio avviso, come a delle insignificanti e normali, ancorché implasticatissime, impasticcatissime, ma anche gnocchissime, cinicissime, avidissime, puttane (ach! lo ho detto di nuovo). Anni luce distanti dalle "meravigliose" e "veraci" figure ispiratrici delle sue canzoni.

Normali puttane (un lavoro come un altro, del resto), nulla di meno, nulla di più.

E non c'è Ruby, ed allegato programma tv di Alfonso Signorini, che tenga.


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editoriale di Geo@Geo

L’editoriale, in campo giornalistico, è un articolo che tratta temi di attualità di importanza rilevante, penso che sia superato esclusivamente dall’articolo di fondo, che in genere è lasciato al Direttore del giornale: ma qui chi è il Direttore?

In effetti anche su DeBaser si utilizza un sistema simile, anche se i temi sono rilevanti per chi li scrive, non necessariamente per chi li legge. Eppure il popolo dei DeBaseriani partecipa con notevole interesse alla fase di discussione, tanto che spesso si scatenano delle vere e proprie risse verbali, talora con scintille che bucano lo schermo e incendiano le tastiere dei più assidui.
E’ una danza di parole che attraversa a tutto campo il tuo video, utilizzando dei ritmi talora frenetici, talora più lenti: insomma dal valzer, al tango, passando per il rock’n’roll acrobatico e il boogie woogie.

In genere chi scrive un editoriale è una "grande firma", talora un giornale utilizza un pool di editorialisti: la formula di DeBaser è mista, usa “diverse grandi firme”.
I temi trattati sono i più disparati e non sempre classici o di attualità, ma ultimamente gli argomenti mi sono parsi più intimisti, a partire dal “cerchio ed il girino” di cui si parla il 23 dicembre 2010: uno degli editoriali più belli, coraggiosi, realisti con l’occhio rivolto al nostro futuro prossimo, i figli. Tutto quello che viene dopo è un tentativo costante di capire cosa muove il mondo che ci circonda; la partecipazione è grande, i giovani sono in prima linea seguiti dagli interventi dei “così detti anziani”, anche se non garantisco l’incolumità di nessuno ad usare tale termine in discussione. Cinismo, speranza, buon senso, vergogna, stupore, autoironia, sconcerto e altro, appaiono in quegli interventi quasi sempre apparentemente buttati li, ma in realtà ben soppesati anche nelle virgole.

In questo grande paese che è DeBaser c’è veramente posto per tutti, ma proprio tutti , con poche eccezioni: non si sopportano i bugiardi, gli attaccabrighe di mestiere, i non rispettosi delle idee altrui e i perditempo.
Le parolacce e gli “ideogrammi” sconci, vengono concessi; l’intelligenza asfalta le pagine virtuali di questo luogo invisibile, eppure così a portata di “dita”; sono una cittadina di recente acquisizione, ma non mi sento affatto spaesata; la bellezza di questo “posto” è proprio qui, davanti a te, nel tuo schermo.

Non ho interesse a scrivere editoriali, a meno che non ci siano necessità pressanti, lascio questa fatica a chi lo fa decisamente meglio: questo è solo un piccolo tentativo di esposizione di fatti reali, a dispetto di una realtà virtuale che ci ammanetta al computer.
Userò l’ordine alfabetico, perciò ai Bartleboom, Fosca, ilfreddo, Jurix, MoA, Zaireeka e a tutti gli altri, dico solo: scrivete, scrivete, scrivete.

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editoriale di ilfreddo

Raccogliere rame, quello che la maggior parte della gente disprezza da quando la lira è morta, e ritrovarsi ad avere dopo qualche pagina di calendario diversi chili in forma di cerchi. Li guardo pensieroso, mordendomi fino al sangue il labbro inferiore, ed infine opto per un esperimento: lanciare questa pioggia infinita di monetine dal mio pc a quello di una banca sconosciuta per un'offerta libera.

Inizialmente provo a non badare alla zanzara che si è posata sul braccio e che ben presto mi ha punto. Tento di non controllare la risposta: il grazie che sono certo di aver ricevuto. Ma i giorni passano, accumulandosi come vecchi giornali in un tristo angolo senza luce, e ad un certo punto erutto l'impazienza accumulata e mi ritrovo a scorticare la pelle punta in profondità, fino all’osso.

Non credo di aver mai controllato la mail con così tanta costanza e frenesia. I soliti vari messaggi inutili; ma quello che cercavo. Cazzo, quello no. Non è possibile: sarà in ferie, mi dico. Mi ritrovo impaziente, come un innamorato al suo primo amore. Quello che, con il cellophane ancora attaccato al cuore, è intento a masturbare senza pausa il cellulare per leggere e bere il miele gratuito della sua dolcissima metà.

Quest’attesa febbrile ci ha messo un bel po’ a scemare ed andarsene. Innumerevoli volte sono pure stato tentato di scrivere qualcosa del tipo: ma con quel fottuto rame che ho raccolto con così tanto amore e che ti ho donato si può sapere che cosa cazzo ci hai fatto? Te lo sei mangiato, scolato al primo bar?

Fa estremamente male realizzare che l’esperimento sia riuscito.

Ci credevo davvero quando ho premuto ente, ma è inutile negare che quell’offerta non l’ho mandata per soddisfare un nobile bisogno di elargire liberamente un po’ dei miei risparmi per qualcosa che a mio opinabile parere meritava un plauso. L’amara realtà è che se getto un sasso nel lago, lo faccio per vedere le onde che quella caduta crea. E più grandi sono, più sto bene. Se caccio un urlo non è per sfogarmi, ma solo per sentirne l’eco fragoroso. Se faccio un gesto gentile è perché penso che il grasso grazie che nascerà, con ogni probabilità, mi sazierà come un pranzo di Natale.

Queste monete elettroniche lanciate, e fortunatamente rimaste senza eco, hanno finalmente dimostrando inequivocabilmente quanto il mio vivere sia meschino, doppiogiochista, traballante. Insicuro. Come anche l’azione più apparentemente nobile, una donazione, altro non sia che un gesto fatto per mero tornaconto ed appagamento personale: il lauto ringraziamento riflesso che ero convinto di generare.

Perché se così non fosse non dovrei sempre tendere l’orecchio dopo, restando in attesa di sentire quel fottuto eco. Agirei e basta, senza avere il bisogno di sapere cosa ne pensano gli altri ed aggrapparmi ai loro giudizi. Non godrei a scrivere i miei pensieri qui, ma me li terrei per me e per i pochi amici con i quali verrebbero fuori, forse, dopo tre pinte al bar. E starei bene comunque.

E voi lì dietro, ditemi un po’ popolo di debaser, sapete resistere all’eco? Al bastardo ed ammaliante canto delle sirene?

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editoriale di MorgueOfAbsinth

Dunque, sentirsi o definirsi intellettuale equivale ad ammettere la propria idiozia, la propria malafede, la propria stupidità assoluta, mascherata da una bella e sana coltre di arroganza e cinismo?

Lo scrittore Cesare Battisti, rifugiato politico a Parigi, è stato arrestato dalle forze di polizia francesi il 10.2.04, ed è trattenuto in carcere in attesa di estradizione. Protestiamo contro questo scandalo giuridico e umano, e chiediamo l'immediata liberazione di Battisti.

Sto tentando di comprendere la psiche dei millecinquecento firmatari di questo appello. Perché tutta questa colta partecipazione per Cesare Battisti e non per Ercole Vangeli, omicida plurimo? O per l’ineffabile ex gaudente Angelo Izzo o per l’incredibile Skylar Deleon? Nei miei infruttuosi e psicologicamente carenti tentativi ho tentato di vedere attraverso gli occhi degli eroici millecinquecento: Vangeli è un terrone senza stile, probabilmente si ciba d’aglio, ama la mamma, ha la canotta macchiata di sugo e tiene i caricatori accanto alle immagini di Maradona e della Madonna; Angelo Izzo è un fascista di merda, un neonazista, calvo e bruttarello, degno di marcire accanto a Hitler, Céline e ad Anselmo Sgaldan (Anselmo, 97 anni, da Vigodarzere, è l’unico nonno in Italia a non essere mai stato un partigiano, bensì un fascista; lui, unico in tutta la nostra grande nazione); Skylar Deleon ha distrutto la psiche di miliardi di bambini, da Alpha Centauri a Ficarazzi, Palermo, impersonando uno dei Power Rangers, tipico prodotto televisivo obnubilantemente fallocentrico di una civiltà americana hamburgerizzata in piena decadenza culturale e intellettuale. E antifemminista.
Cesare Battisti no. Bernard-Henri Lévy lo definisce “ancien enragé divenuto scrittore". Philippe Sollers, Daniel Pennac, Fred Vargas, Valerio Evangelisti, i Wu Ming, Vauro, Marco Philopat, Tiziano Scarpa, Alex Cremonesi lo ammirano: sono alcuni, tra i più celebri, che all’epoca firmarono l’appello sopra riportato, credendosi tanti piccoli Zola impegnati in un affare Dreyfus trasportato nel XXI secolo.

Con la loro semplice firma, in calce ad una così assurda richiesta, hanno dimostrato ben altro, senza che si avverta il bisogno di leggere i loro scritti in proposito, le loro apologie, le loro miserabili autodifese.
Hanno dimostrato di non aver capito che Battisti, come Vangeli, Izzo, o Deleon, ha semplicemente impugnato la pistola e ucciso. Hanno dimostrato di non aver compreso che quattro parole del cazzo, vergate in ordine e pubblicate, non fanno di un pennivendolo uno scrittore o un artista. E anche se lo facessero, non potrebbero cancellare omicidi compiuti ipocritamente nel nome del terrorismo proletario. Hanno dimostrato di non aver capito che non possono più giocare a fare gli arrabbiati, giunti all’età della ragione: la pietà va alle vittime, non ai carnefici; l’impegno sociale deve essere riservato agli innocenti e ai deboli, non ai tracotanti e arroganti Battisti di ogni credo; che l’ammirazione verso i tenebrosi e violenti prevaricatori dell’ordine instaurato tra uomo e uomo, verso i colti vendicatori del popolo (del quale peraltro i firmatari non fanno parte) adombra miopia assoluta: o, più spesso, cieca malafede, egolatria e inebriamento delle proprie grottesche visioni del mondo politico e sociale.

Ma ecco, sorpresa, una nera surrealtà che si china a inghiottire l’era della ragione.
In questi giorni è partita da Venezia una grottesca operazione di boicottaggio verso i libri di questi signori; Raffaele Speranzon, assessore alla Cultura della Provincia di Venezia con delega alle Biblioteche, ha affermato: "Scriverò agli assessori alla Cultura dei Comuni del Veneziano perché queste persone (i firmatari di cui sopra, N.d.A) siano dichiarate sgradite e chiederò loro, dato anche che le biblioteche civiche sono inserite in un sistema provinciale, che le loro opere vengano ritirate dagli scaffali: è necessario un segnale forte dalla politica per condannare il comportamento di questi intellettuali che spalleggiando un terrorista". Particolarmente inquietante è stato l’appoggio dato alla proposta da parte di Franco Maccari, segretario generale del sindacato di polizia Coisp. Polizia e controllo dei libri: qui qualcosa non quadra.

Ad idiozia aggiungiamo estrema idiozia, velata però da paura: ed ecco che si torna ad un clima grottesco dove da una parte si gioca al piccolo nazista con le liste nere di libri; dall’altra si recita la parte dei geniali artisti attaccati da una selvaggia dittatura ma mai domi, sempre ribelli (cazzo, i Wu Ming e Valerio Evangelisti, altro che Heine, Mann o Remarque!).

Ho paura sapendo che Raffaele Speranzon è diventato assessore alla Cultura. Perché è un burocrate ignorante, un ex MSI, perché certamente, date le sue parole, vive nel culto di Mussolini, perché ad un Cro-Magnon come lui è stata affidata una delle più alte missioni: la protezione e il progresso della cultura, gradita o sgradita al potere.

Per cui, nonostante tutto il livore che ho riversato nelle righe precedenti, aggiungo una firma a favore di quei poveri dementi dei firmatari a favore di Battisti.
Che continuino imperterriti a scrivere, pubblicare e vendere, nonostante Speranzon e la sua triste progenie insistano nello strisciare, ventre a terra, come marci vermi e nel tentare di trascinare l’umanità al loro putrido livello.


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editoriale di zaireeka

Oggi, tranquilli, non ho assolutamente intenzione di parlarvi delle mie solite menate filosofiche, tipo problemi della fermata, numeri casuali, natura della coscienza, ed altro. Nè della composizione quanto-meccanica del nostro corpo.

Ciò di cui voglio parlarvi, scusate la modestia, è di come viene al mondo e si forma il nostro modo di pensare.

Quello di cui siamo fatti, cari amici miei, salvo rari casi, sono semplicemente idee altrui, lette o ascoltate, troppo spesso neanche capite fino in fondo, per non dire assimilate con superficialità ed addirittura usurpate, sbandierate ai quattro venti per darci un tono.
Detto questo, vado al dunque.

Come quasi tutti sanno, negli ultimi anni si fa un gran parlare di come il pensiero di tale Joshua il Nazareno sarebbe stato usurpato dai fondatori di quella religione chiamata Cristianesimo.
Forse però pochi si sono accorti che in questi giorni, quasi come un contraltare, seppur fatti i dovuti distinguo, si fa anche di peggio con le idee del compianto Mario Monicelli riguardo l'inesistenza di Dio. Mario Monicelli era sicuramente un ateo, non penso ci siano dubbi.

Quello che però voglio dire è che, a mio modesto parere, nessun uomo, neanche Monicelli, potrebbe mai riuscire a prendere alla leggera l'idea della inesistenza di Dio.
In fondo non stiamo parlando del fatto se Babbo Natale esista o no.

La convinzione interiore dell'inesistenza di Dio (quello vero, non quello con la barba bianca, tanto simile a Babbo Natale), di qualcosa/qualcuno che spieghi il "fine ultimo dello nostra vita", è quanto di più sconvolgente possa essere provato dall'uomo, e qualunque uomo, se non già diventato completamente folle per la relativa presa di coscienza, continuerà a cercarlo per tutta la vita, (giusto fra parentesi, io penso di essere fra questi) seppure a volte senza saperlo.

Ed è proprio questa ostinata ricerca, conscia od inconscia, unita alla grandezza ed alla genialità di alcuni uomini, che ha portato all'umanità delle opere d'arte, in campo umanistico e scientifico, di straordinario valore.
Ci sono poi quegli uomini che, d'altro canto, portano a bandiera le idee di gente come Monicelli in maniera superficiale, senza condividerne la relativa sofferenza interiore.

Questi ultimi, a mio avviso, possono anche arrivare a sparare qualche cazzata su qualche sito internet, se mai fare i ganzi scrivendo dio con la "d" minuscola, che fa tanto ateismo cinico e di tendenza.
Ma nulla di più.

Io ritengo che Monicelli appartenesse agli uomini della prima categoria, alla faccia di quelli che lo liquidano solo con un "comunista ed ateo".
Onestamente me lo immagino in questo momento in braccio a Dio, che dal cielo fa un bel gesto dell'ombrello rivolto a tutti quelli sotto, urlando, sempre incazzato contro il "Sistema":

"Dovrei dirvi che ci ho semplicemente ripensato. Ma in verità Vi ho preso tutti in giro cosicché il Paradiso non fosse troppo affollato e potessi, una volta arrivato qui, averLo (e sapete di Chi parlo...) tutto per me.".

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editoriale di ilfreddo

Rideva acido nei confronti delle colline sottostanti. Pomposo, alzava la schiena e stava bello dritto con la sua parete verticale e cazzuta; capace di mantenere sul versante nord un po’ di neve fino a giugno inoltrato. Le guardava con sdegno e sufficienza quelle dolci curve verdi quasi mai innevvate, ed arrogante scaricava pure un po’ di pietre. Proprio su di loro, che dal basso lo veneravano come se fosse un Dio.
Dopo qualche migliaio di anni lo stesso monte viene venduto ad un avido collezionista. Come tutti anche questo è smanioso di avere vicino a sé il nuovo acquisto e così, senza perder tempo, fa arrivare subito in città un Miracle Blade milionesima serie perfetta. La famosa lama, che affetta benissimo anche il pane morbido, fa cadere con un taglio sapiente e deciso la gigantesca parete. Giù, nel teletrasporto posto con accuratezza alla base della stessa. Un suono elettronico ed istantaneamente le colline si scoprono essere quello che non erano mai state prima: assolate ed altissime ora dominano un panorama sconfinato.
Il monte invece, dall'altra parte del globo, si guarda spaurito e timoroso. Cazzo fa freddo, si dice, mentre tossisce un paio di grasse valanghe. Da qui quasi non lo vede più l'amico sole con il quale era solito discorrere a lungo del più e del meno. Spalle rocciose senza fine in ogni direzione gli coprono la visuale. Le risa di scherno taglienti ed acide, simili a quelle che rivolgeva alle colline, ci sono anche qui sebbene non le senta: giungono da troppo lontano, da troppo in alto e sfumano nel vento gelido.

In ogni compagnia ce n'era uno ed una parte delle serate adolescenziali ed universitarie, inutile negarlo, eravate soliti passarle prendendolo apertamente per il culo. Ed era un vero spasso perché non se rendeva nemmeno conto. Di fronte ad una battuta non colta, ad un doppio senso a lui invisibile, si proteggeva ridendo forzatamente. Ma non convinceva nessuno. Il cespuglio nel deserto che rotolava nel fumetto sopra la sua testa era gigantesco: una scritta al neon in una notte senza luci. In quello sguardo vacuo, in quelle uscite così innocentemente inopportune e disarmanti, era difficile riuscire a non cedere alla tentazione di forzare la mano. Almeno un po’. Perché se lo aveste lavorato ai fianchi con fare diabolicamente affabile, glielo avreste potuto vendere un volume di una Treccani in islandese facendogli credere che fosse davvero quella la cosa che doveva assolutamente acquistare.

Poi ti innamori. Prima di rinsavire e trovare gli occhiali della giusta gradazione hai già cambiato compagnia, coordinate IBAN, città e lavoro. Tutto procede normale e anno dopo anno scopri che questa gente dalla strana pronuncia con la quale vieni a contatto ti sta parecchio simpatica. La trovi acuta e stimolante: altro che i beduini pecoroni che governavi e prendevi per il culo. Discorsi al fosforo e ore piene di risate. Cazzo, non avevi mai riso così tanto in vita tua.

E così, dopo una di quelle serate divertenti ed appaganti, torni a casa soddisfatto. Riponi con cura il sacchetto sulla tavola e poi, con fare lento e sacrale, sfogli il grasso tomo in pelle appena comperato. Le rughe del tuo sorriso si asciugano in un istante per un volto di cera. Perché amaramente scopri che non c'è proprio un cazzo da ridere.

Toh, islandese.


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editoriale di JohnHolmes

Il web offre la possibilità di creare dal nulla molte cose. È così che ritrovi la tua vita sparpagliata tra account di Facebook, Twitter, Myspace e affini. Tutte cose che chiunque può creare all’interno della grande rete rapidamente e con semplicità.
Tuttavia questo piccolo gesto chiamato “creazione” non fa per noi. Non è dell’uomo, almeno non totalmente.

Ho avuto piena consapevolezza della limitatezza delle nostre possibilità qualche sera fa, mentre ero intento a registrarmi su Gmail e mi è servita un’ora per decidere che nome dare al mio nuovo indirizzo di posta. Ho pensato che, di fronte a problemi oggettivamente così piccoli, come attribuire un nome ad una realtà virtuale o concreta (come quando nasce un figlio), è molto difficile procedere e abbiamo bisogno di momenti preziosi per ponderare la questione e valutare attentamente le possibili eventualità.

Giusto per restare in tema, pensate a quando siete in procinto di scrivere una recensione: trovare le parole giuste, cominciare il discorso nel modo giusto, assemblare le parti in maniera perfetta non è facile né immediato.
Si tratta di tentativi umani di creazione che non sempre lasciano soddisfatto l’autore.

Guardandomi intorno ho pensato: se davvero esiste qualcuno o qualcosa che ha creato tutto questo mondo, egli deve essere molto più grande di noi per poter realizzare qualcosa di così grandioso.

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editoriale di JURIX

Basta! Non è possibile che la gente si lamenti sempre e veda trame oscure dove invece tutto funziona a meraviglia.

Sento diversi amici che cercano un lavoro da mesi, e poi quando lo trovano e scoprono che non hanno diritto a ferie o malattia si lamentano; ma tutto questo è per far recuperare loro il tempo che sono rimasti a casa prima. Le donne poi assurgono di avere più problemi degli uomini perché il datore di lavoro non vuole che poi stia a casa in maternità: ma mica è una cattiveria, ma uno stratagemma per andare incontro ai già pieni asili-nido.

Sempre a voler vedere il lato negativo delle persone, ohibò.

Prendiamo ad esempio Tanzi e Gaucci, che dopo aver preso in prestito qualche soldo si sono visti puntare il dito contro dalla legge italiana, ed allora sono andati in qualche isoletta del centro America casomai le popolazioni locali ne avessero bisogno, e voi tutti a pensare male.

O parliamo di energia: si stanno erigendo molti nuovi 'termovalorizzatori', che oltre a produrre energia a costo quasi nullo, sono degli splendidi obelischi che richiamano i fasti dell'antichità, perlopiù hanno pure una vena magica: introduci immondizia e questa scompare; ma no, la gente pensa sempre male.

Quando il Vaticano giustamente ha condannato l' uso del preservativo per difendere l' ambiente dal crescente consumo di plastica... oppure quando alcuni dirigenti calcistici telefonavano per avere informazioni sulla salute dell'arbitro o su come avevano mangiato al ristorante il quarto uomo... anche qui c' è gente che fa sempre malevole illazioni.

Vi lamentate sempre di tutto: un amico l'altro giorno mi diceva che quindici anni fa con 11'000 £ si vedevano live i Carcass, oggigiorno si pagano 30 Euri per i dARI, sì d'accordo, ma è logicamente una norma per avere più spazio all'interno dell'area concerti.

Abbiamo politici che si prestano a tutto pur di far girare l'economia del Paese, anche organizzando costose feste nelle loro ville, per di più togliendo pure la prostituzione dalle strade, ma molte persone no, non sono contente.
In Parlamento ci si rifiuta a ragione di fare il test sull'assunzione di droghe, e molti di voi lanciano accuse... ma scusate a Palazzo Chigi c'è un'età media che supera i 70 anni, quale metodo più giusto per fare in modo che diminuisca l'offerta di cocaina per i nostri figli?

Piovono accuse di sperperare troppi soldi per le missioni militari all'estero o per finanziare l'Alitalia... ma secondo me si può star tranquilli, di tutti quei soldi ne arriverà un quinto, il resto si perde nel lungo viaggio o in cassetti di uffici vari ed eventuali.
Malelingue mettono in giro voci di presidenti di regione che assumono come collaboratori i propri familiari... bhè a me sembra una buona cosa, con tutto il traffico delle grandi città, è una cosa giusta andare al lavoro con la stessa auto.

La benzina è molto più cara confrontata con altri Paesi europei? Ma invece di fare equiparazioni faziose, avete confrontato pure i premi che danno coi bollini? No eh?

Poi si parla tanto di creatività italiana, di buon cibo, ma dopo quando uno inventa un colorato modo di abbellire i nostri pasti con una mozzarella blu, tutti a dargli contro vero? Vergogna!

Ed infine, l' informazione: sempre pronti a parlar male dei giornalisti, accusati di essere troppo accomodanti; proprio ieri vedevo un servizio di un inviato che spiegava come le Ferrovie dello Stato funzionino in maniera eccezionale (come tutti possono constatare), ed indovinate un po'? Questo giornalista era in seconda classe e pure in piedi: più "scomodo" di così!

Bene. Ho finito.

Come dite? L' editoriale è ironico? Ecco, ve lo dicevo... sempre a pensar male.

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editoriale di MorgueOfAbsinth

Una pioggia eterna cade ormai sul Veneto. Sembra quasi che il corpo della regione su cui mi ha posto il destino si stia sfaldando lentamente. Da Vicenza a Padova, a Caldogno, a Cresole il terreno è diventato come il corpo disteso di un arrogante provocatore che riceve colpi su colpi credendosi invulnerabile: provoca alla rissa un avversario di forze incomparabili, estreme, e si rallegra del fatto che i primi pugni, per quanto violenti, non lascino tracce sul suo organismo. Ma, come tutte le ore feriscono e l’ultima uccide, tutte le gocce di cemento indeboliscono e l’ultima provoca la morte di un territorio. Così è il Veneto. Un’apocalisse di cemento che ha dimenticato come sotto l’asfalto che nessuno calpesta, sotto i centri commerciali che ospitano anime morte, come sotto le migliaia di case inabitate e di fabbriche immobili ci sia la terra veneta.
Cadono massi sfaldati come palazzi in rovina, cadono i denti spaccati del Veneto, colpiti dai pugni del Bacchiglione, del Tesina, dell’Agno, fiumi da niente resi invulnerabili dalla morte della terra veneta; l’acqua rovesciata sul cemento diventa umana quando non trova via di fuga: urla, cade in panico liquido, soffoca come una folla sotto la sua stessa massa, cresce cadaverica fino a morire e a trasfigurarsi in una palude di fango priva di senno, pronta a ingoiare migliaia di animali, milioni di euro e tante speranze quante vittime.

Ho spalato fango. Poco per senso civico, forse per nulla per altruismo, probabilmente molto per soddisfare l’ingenuo palato del mio ego e per apparire, almeno ai miei occhi, come un angelo del fango o qualche stronzata simile; o come la persona generosa e disinteressata che, pur tentando, non sono mai stato, tendendo piuttosto alla piccolezza, alla miseria nelle azioni, ad un egoismo spicciolo ammantato da una patina di falsa pirite morale.
Ma non è di questo che volevo parlare. Mettendo da parte il mio ego prezioso, ecco che narro di aver spalato fango.
Tu da solo? No, signor Brecht.
Volevo parlare di ben altro.
Perché so che un’esperienza individuale di rado può assurgere al rango di verità generale. Ma so anche che nei giorni del fango di Vicenza ho conosciuto e parlato con altri volontari.
E in gran parte erano gente di merda, la peggiore feccia del mondo, la più guasta fanghiglia umana in cui si possa pescare.
Negri di merda, vecchi e giovani, uomini e donne. Quelli ai quali dai del tu quando li incontri, anche se hanno l’età di tuo padre e perché non hanno la bianca gravità di un professore universitario. Quelli che sembrano usciti l’altro ieri dalle caverne, sozzi e animaleschi nei lineamenti.
Rumene del cazzo, che lasciano il lavoro miserabile di pulire scale e cessi per passare quattro ore in uno scantinato allagato come non se ne trova traccia neppure nella Bibbia o nel fluviale “Suttree”. Rumeni pezzenti, stupratori, ladri, sempre pronti a menare pugni e fendenti, ratti subumani, niente più che carne da linciaggio mediatico o da frecciatine da leghisti moderati.
Operai disoccupati, mezzi uomini ricchi solo di ignoranza, di dignità perduta nei gorghi del tempo, di monolocali umidi dalle cui crepe cola povertà.

Ti ringrazio, fango. Mi rivolgo a te come ad un uomo, come a tutti gli uomini e le donne incontrati in quei giorni. Scrivendo queste righe mi trovo a sovvertire l’antica metafora che ti vede come simbolo della sporcizia, fisica e morale. Il fango è pulito, onesto. Più si deposita sulla faccia e sugli abiti più rende consci dell’umanità di chi ne viene ricoperto. Cristo aveva ragione. Beati gli ultimi perché saranno primi. Ma per me questi ultimi sono già primi qui sulla terra: uomini e donne che mi mozzano il respiro. Che mi lasciano commosso, steso sul mio letto alle sei di mattina, con l’abusata non metafora reale del cuore gonfio. Vedo i vostri visi, amici.

Per quanto io stesso sia indegno, davanti a loro, immerso nelle mie comode certezze e nel mio egoismo miserabile e benché, come ho già detto, la mia sia solo la mia esperienza, ho una domanda.
Ho una domanda per voi, ragazzi del Veneto bene, per voi che, pur avendo due lauree vedete negri e rumene e non persone, per voi che trattate con condiscendenza gli operai che vengono a rifarvi il tetto o la signora che vi pulisce casa, per voi che fate gli stronzi con il padre medico e la madre dentista, per voi che se trovate Franco vedete in lui il deficiente che costruisce bare e non l’uomo.

Voi, dove cazzo eravate mentre loro splendevano come uomini liberi nel fango?


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editoriale di kosmogabri

Questo è un editoriale ed io ci vomito dentro quello che mi passa, che tanto qui non c’è niente da recensire, anzi si! Recensiamo la mia rottura di palle, il mio atteggiamento asociale-acido-nichilista- strarottodicoglioni-misantropo che più di un atteggiamento è uno stato d’animo o un modo di essere o un temperamento o una personalità.

Gente come me scivola inesorabilmente nel cliché del macchiettaro provocatore e aggressivo nei rapporti interculturali, ma vi assicuro una cosa, e che possiate passare la notte attaccati alla tavola del cesso se dico minchiate, CONSAPEVOLEZZA e CULTURA sono a ZERO e non parlo dei ragazzi che spaccano tutto per i fondi universitari, non parlo del declino sociale che attraversiamo, non parlo di Berlusconi, non parlo di Bunga Bunga, non parlo della TV, non parlo della criminalità organizzata, non parlo dell’Europa, non parlo di Saviano, non parlo di Vieni via con me, non parlo dei rapporti di coppia, non parlo dei figli, non parlo delle crisi matrimoniali, non parlo dell’Italiota, non parlo dei borghesi, non parlo di religione, non parlo di marte, non parlo della CIA, non parlo di P3, non parlo dei paradisi fiscali, non parlo del passaggio euro lira, non parlo di non scopare, non parlo di malattie, non parlo dell’inquinamento, non parlo dei saccenti, non parlo del Natale, non parlo della disoccupazione, non parlo degli intellettuali che non vanno in TV, non parlo del 2012 o altra cazzata, non parlo di Quark, non parlo dell’eutanasia, non parlo del Papa, non parlo di pedofilia, non parlo di teocrazia, non parlo di Hitler, non parlo di comunisti, non parlo degli animali in estinzione, non parlo della macabra passione per gli omicidi e sparizioni in TV, non parlo dei cazzi miei, non parlo dei cazzi vostri, non parlo della cultura dell’immagine, non parlo delle frustrazioni, non parlo delle invidie, non parlo di vallettopoli, non parlo di chi guadagna miliardi e non fa un cazzo, non parlo di disoccupati, non parlo di extracomunitari, non parlo di rom, non parlo di stragi, non parlo di trans, non parlo di calciatori e veline, non parlo dell’hardcore, non parlo con nessuno, non parlo di Sharm el-Sheik, non parlo con tutti… parlo solo di noi.

Noi assuefatti da una naturale amoralità e pigrizia intellettuale, volta ad una quotidianità, apatica di stenti che si strascinano verso un declino dell’anima, ai vuoti dentro che non sai mai dove nascono… parlo di noi che non abbiamo capito che nella vita ciò che ci rende davvero vivi sono le passioni, quelle alle quali molti hanno rinunciato, quelle che paradossalmente a scanso delle mille responsabilità ti riempiono l’anima, quelle che Pavese definiva pericolose, quelle che ti permettono di mollare tutto per conquistarle, quelle che ti permettono di non morire, quelle che ti insegnano a lottare diventare più forte, quelle che ti completano e riscattano il proprio karma.

Nulla si crea, nulla si distrugge tutto si trasforma: nelle moltitudini di vite vissute, dovremmo aver acquisito l'importanza delle passioni, mentre invece ancora oggi mi trovo a vedere la gente rinunciare a sé stessa.

Come potremmo mai sperare di incontrare gli alieni se siamo in queste condizioni, o forse loro sono già in mezzo a noi che ci guidano ad una sopravvivenza ormai ai limiti, alieni vi prego prendetemi!

Alieni aiutatemi! Venitemi a prendere che qui molti credono di essere già morti, quando invece non hanno capito che grazie a Dio sono ancora vivi!!!
Alieni! Alieni!!!

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editoriale di ilfreddo

Appiccicato alla finestra, con il naso all’insù! Lenzuola cadono soffici ondeggiando lentamente prima di poggiarsi su un pavimento fatto di morbidi fazzoletti abbaglianti. E’ una caduta lenta ed appagante, certamente ipnotica, che non pare proprio avere fine. Il sorriso cresce mentre esce dalla gola un tenero garbuglio di versi incomprensibili suffragati da un braccio che si alza: gioia. Quei gelidi giorni prima e dopo Natale come una storia d’amore appassionata, fresca ed inebriante. Il sapore delle sue labbra nelle tue e quella voglia di non lasciarle andare. Telefonate a cascata, batticuore, promesse e quella tenera e falsa convinzione che, cazzo, stavolta l’incantesimo sarebbe durato per sempre. Natale ed i suoi regali nei mesiversari, nelle serate blockbuster con la cioccolata calda ed il piumone, negli happy hours chimici, nel finto studio in biblioteca e nelle sperimentazioni a letto con un timoroso orecchio teso alla porta.

Poi una sera di fine dicembre quel bimbo scopre che il barbuto panzone vestito di rosso non viene dalla Lapponia ma dalla stanza vicino alla sua; e quello è un momento duro da accettare. Il primo discorso serio tra i quattro occhi dello stesso DNA. Non la guarda più la neve che scende, ma solo quelle palle grigie del gigante. Fanculo, si cresce! E la bella storia d’amore mette su qualche chilo e si avvicina al terreno che prima manco sfiorava. La letterina non la scrive più e le vacanze vengo attese con trepidazione per giocattoli tecnologici assai costosi; come le cene tête a tête sempre più impegnative con discorsi sul futuro. Il Natale che diventa carino, normale, incolore.

La routine si tramuta in un paio di bei abiti bianconeri su un altare. Le posizioni, dopo il miele, sempre meno perché il mal di testa è una consuetudine, le amiche di lei proprio non le sopporti ed il calcetto e le serate alcoliche con gli amici sono sbiadite e sparute come gli stoici capelli che restano sulla cute e non muoiono, come gli altri, sul cuscino. Di risatine mica tante, ma le frecciate al veleno e i paragoni; no, quelli non mancano.

L’angioletto innocente che guardava la neve è cresciuto: un acido stronzo adolescente saputello che ora tira pezzi di ghiaccio annerito sui compagni di scuola bestemmiando. Il Natale come una piaga: perché non ha mica voglia di farli i regali e buttare nel cesso giorni per stare con i parenti obsoleti e vetusti. Per cosa poi? Sua nonna, quella rincoglionita, non sa che con i suoi 50 euro non ci può comprare nemmeno una stecca!

Poi il miracolo: un cerchio ed un girino si incontrano per caso tra ginocchia e polmoni, si piacciono tanto e crescono al caldo. E così l’ultimo 25 dell’anno torna ad essere catapultato in cima alla lista. Vedere lui, o lei, che si gode le luci ed i regali riporta la vigilia in auge come ai bei tempi. La coppia torna cemento armato di quello cazzuto che nulla, ma proprio nulla, potrebbe scalfire. Natali sereni si susseguono ma il piccolo bipede, o forse due in rapida sequenza, cresce in fretta. Prendono con simmetria i difetti di lui e le paranoie di lei e le richieste di regali alla filigrana spengono ben presto l’atmosfera ricreatasi.

E così non vi parlate più: i genitori. Rassegnati ed invecchiati davanti alla tv. Lei ti giudica mentre mangi violentando le posate e pur non dicendo nulla ha scritto in testa un fumetto enorme. In quei silenzi di ghiaccio un foglio protocollo di insulti che lui non prova nemmeno a leggere perché ha la partita da guardare, una birra da finire. Estranei. Natali si ammucchiano in un cantuccio assieme agli altri come strati di polvere incollati con resina sul tavolino. Una storia d’amore che si inaridisce e tira avanti per mera inerzia. I futuri eredi se ne sono andati in affitto e gli spazi tra quelle quattro mura ora sono enormi, quasi paurosi. Natale come un’ancora: una scusa alla quale aggrapparsi per far scontrare, almeno una volta all'anno, conoscenti che camminano ormai veloci su altri binari.

Poi un bel dì, ma forse era sera a pensarci bene, un altro girino entra in un altro cerchio ed il Natale torna prepotente redivivo. Fogli di giornale fatti bruciare zampillano arzilli per una fiamma azzurra.

Una casa calda e festante. Nonni e genitori si sorridono mentre guardano una manciata di ossa e morbida pelle osservare estasiata ed ipnotizzata la sua prima neve cadere dal cielo. Gli occhi sgranati davanti alla finestra: potrebbe star lì per ore.

Buon Natale Debaser!

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editoriale di Karimbambeta

Quasi le 5 del mattino.
Un bicchiere di vino, una sigaretta poco gradita ai polmoni, e segni di un'insonnia cronica e sofferta.
Guardo un film del '72, mentre qui accanto a me giace una rivista di "cultura generale", trastullo per casalinghe turbate: qualche pagina di moda, qualche dossier su viaggi di tendenza, qualche ricetta lampo (l'ultima arte, quella culinaria, anch'essa sta lasciando spazio alla mediocrità insolente del "produrre anche quando si è inetti"), e tanta, tanta carta lucida e sporca di parole disoneste.
Guardo il film.

Le donne erano belle: occhi profondi e sinceri (quella profondità che costringe la mediocrità ad adeguarsi o a eclissarsi), occhiaie lievi o pronunciate, gambe sottili o tornite. Belle.
Guardo la rivista, e vedo zigomi alti e grotteschi, sguardi imposti e spenti, energie negative e odore d’inchiostro sprecato.
Le donne erano belle, ora sono maschere. Le donne erano brutte, ora sono maschere ritoccate.
Il mondo era bello e lo si apprezzava. Il mondo è bello e lo si deride.
Il mondo è marcio, e si vive bene o si piange. Si piange per dimenticare. Si piange per secernere fino all'ultima lacrima accumulata; svuotarsi, fare finta di niente e ricominciare da zero. Ogni giorno.

Gli occhi belli erano belli anche con occhiaie. Anzi, forse lo erano di più.
Un abito era bello anche se fuori moda, e una melodia era bella anche se non l'ascoltavi in discoteca o in qualche festino da "centro sociale" dei nostri giorni (che fa lo stesso).
Danno la pubblicità, ora. L'ennesima "diavoleria" informatica: uno strumento che regala il mondo a chi del mondo non sa che farsene. L'ennesimo invito a dimenticare, a versare lacrime catartiche e a ripartire da capo.
Ma non ce n'è bisogno.
Ho visto donne e uomini cambiare anima davanti a una digitale e dimenticare.

"In ogni nazione ci sono delle persone buone che pensano a come far stare bene la gente normale che lavora". In ogni nazione c'è chi pensa a farti stare bene e a farti dimenticare. Ora che hai dimenticato, ora che hai formattato la memoria, devi metterci su solo un bel lucchetto e buttare via la chiave.

Viviamo tra donne di plastica (e all'interno non hanno aria ma sangue, ossa e cartilagine), viviamo in piazze virtuali dove anche balbuzienti e relitti umani trovano la propria rivalsa. Viviamo tra chi pensa a che foto scatterà il giorno dopo.

Non sto speculando sulla nostalgia e su valori anacronistici. Non me ne frega un cazzo. Ho solo paura di non poter più toccare, parlare, fare l'amore con UOMINI, e non con "profili"; ho paura di piangere anche io per dimenticare e di vivere per veder vivere. Ho paura di non riuscire più a capire che in fin dei conti il divertimento è solo una foto scattata in una serata dove tutti sono debosciati che ondeggiano per inerzia e che cambiano fulmineamente espressione di fronte l’obiettivo.
Cerco la coerenza, la correttezza, la bellezza, la natura. Cerco occhiaie e rughe marcate.

Ma sto qui a spiegarvelo su internet...

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editoriale di zaireeka

C'è poco da fare.

Almeno una volta l'anno un pizzico di banalità non guasta.

Ed allora lo dico.

Natale è la festa più bella del mondo.

Il motivo per cui ogni anno, più o meno tutti, credenti e no, ci commuoviamo e ci appassioniamo a questa festa, sempre uguale, sempre identica a se stessa, non è facile da capire.

J.L. Borges diceva che l'abitudine ci dà l'illusione di essere immortali.

Sarà questo il motivo?

Una cosa che mi ricordo delle festività natalizie della mia infanzia è di come fossi convinto di poter essere in grado di controllare l'accendersi e spegnersi pseudo-casuale (ma allora non lo sapevo) delle luci dell'albero di Natale.

Non mi rendevo conto che statisticamente avevo il 50% di possibilità di azzeccarla.

Quelle volte in cui ero in sincrono ero stato io a controllarle, le volte in cui non lo ero, semplicemente non mi ero concentrato abbastanza.

L'idea di non essere onnipotente, oltre che non immortale, non la avevo ancora digerita o assimilata completamente.

A conti fatti, allora ero un po' come quei personaggi dei cartoni animati tipo Will il Coyote che, lanciato in corsa verso il burrone dal razzo ormai spento, supera il dirupo e continua a correre nell'aria come se niente fosse.

Fatto salvo poi, una volta resosi conto dell'esistenza della forza di gravità, cominciare ad essere trascinato inesorabilmente verso il basso.

Ora sono qui, caro Gesù Bambino, in attesa di questo ennesimo Natale, che continuo allegramente questo mio volo sospeso, come direbbe Pascal, fra questi due infiniti.

Ogni tanto, insieme a tutti quanti i miei Fratelli e le mie Sorelle su questa terra, guardandomi attorno per ammirare lo spettacolo, piangendo, ridendo, amando.

Tu però, almeno a Natale, cerca di ricordarci che ci potresti ancora essere tu, quando ci arriveremo, in fondo al burrone.

E che ci aiuterai a non farci troppo male.

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