editoriale di ThorsProvoni

Sono stato in posta ieri, ci vado almeno una volta al mese per pagare i bollettini vari che sommergono le nostre esistenze e ci svuotano il portafoglio.

Naturalmente non funzionava niente o quasi e sono rimasto ad aspettare per una buona mezz'ora.
In questo tempo di attesa avevo intenzione di aprire il mio Cybook e immergermi nella lettura di qualcosa. Invece la mia testa ha cominciato a vagare, anche grazie ad una signora vicino a me che parlava della scomparsa in giovane età di una sua amica.

Questo mi ha fatto venire in mente un'usanza di alcune tribù tibetane del nord, che non so neanche dove ho letto o sentito: se c'è nel gruppo un malato, questo viene posto in una tenda al centro delle altre (che sono normalmente poste in cerchio) e qui resta fino alla guarigione o alla morte.

Ma la particolarità è che ogni giorno qualcuno lo va a visitare e gli porta un dono. Non qualcosa di particolare o di strano, ma semplicemente una radice, una foglia, una piuma d'uccello, qualcosa così, insomma. E il malato capisce, guardando questi oggetti, che non è solo nella sofferenza.
Quest'immagine mi ha fatto riflettere sull'importanza (o meno) che la nostra società dà alla persona malata, specie in fase terminale.
Io ho perso i miei genitori a distanza di 2 anni e mezzo, entrambi a causa di un tumore al fegato. Mio padre è stato ricoverato prima un paio di volte per poche ore al pronto soccorso nell'arco di 15-20 giorni; poi dopo l'ultimo ricovero la notte di ferragosto è rimasto in ospedale per una settimana ed è morto. In quei giorni è stato tartassato con prelievi quotidiani per controllare i valori del sangue, continue terapie con iniezioni e compresse (anche quando aveva difficoltà a deglutire), gli hanno messo una mascherina particolare per ossigenarlo, ecc. E la mattina che è morto era talmente stufo di tutto questo che, in stato semicosciente, ha strappato di mano all'infermiera l'ago con cui gli stava facendo l'ennesimo prelievo, sporcando di sangue tutto ciò che stava intorno. Dopo un paio di ore ha chiuso gli occhi. Gli stessi medici che l'hanno assistito avevano comunque detto che era destinato a spegnersi nel giro di pochi giorni.
Dopo quest'esperienza di accanimento nei confronti di mio padre, quando mia madre è arrivata allo stesso punto, ho preferito tenerla a casa, anche perché lei aveva sempre detto: "fatemi morire a casa mia". Naturalmente ha avuto tutta l'assistenza medica possibile, anche grazie ai medici di un associazione di volontariato che qui a Vercelli segue i malati in fase terminale. E mia madre è spirata tranquillamente, senza che prelievi e terapie varie le prolungassero l'agonia.
Davanti ad una persona che sta morendo, io penso, dobbiamo pensare anzitutto alla persona, non al nostro rapporto con lei. Mi spiego. Se pensiamo che stiamo perdendo un familiare probabilmente ci viene naturale dire (o gridare) dentro di noi: non voglio. Ma la morte è l'unica certezza della vita, si dice. E prima o poi dobbiamo morire tutti. Perciò ritengo che bisogna sempre chiedersi qual è la cosa migliore per la persona che si ha davanti, sia che questa stia bene sia che, a maggior ragione, stia male.
Chi arriva a quei momenti, normalmente, capisce che sta morendo e capisce pure, per quanto questa cosa possa procurargli dolore nell'animo, che è inevitabile. Perciò ritengo, forse a torto, che voglia soffrire il meno possibile.
Non voglio qui impelagarmi in discussione su eutanasia, accanimento terapeutico e cose di questo tipo, ma semplicemente ragionare sul far seguire alle cose il loro ritmo naturale.
Come quel tibetano nella tenda: alla fine morirà pure, ma ogni giorno potrà vedere dalla foglia e dalla radice che non è solo. E che tutti lo rispettano perché è ancora uno di loro, fino alla fine.

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editoriale di Flame

Ho trovato il modo per mandare in crash il modello spazio tempo di Einstein. Nei sogni, come tutti voi avrete sperimentato, credo, il tempo scorre più velocemente che nella realtà. Mi spiego meglio. Per notare con chiarezza il fenomeno di cui sto parlando occorre che si verifichino alcune cose. Occorre che ci si addormenti subito dopo aver controllato l’ora in quella che per semplicità chiameremo “esperienza reale”. Occorre poi una volta risvegliati, che ci si ricordi l’esperienza che si è appena vissuto in sogno. Occorre infine, per apprezzare meglio il fenomeno, che nell’esperienza reale sia passato relativamente poco tempo tra il momento in cui ci siamo addormentati e quello in cui ci siamo risvegliati. Diciamo che un quarto d’ora potrebbe essere il lasso di tempo ideale per prenderne meglio consapevolezza.

Di solito capita di accorgersi di questo fatto in frangenti simpatici tipo la mattina presto dopo una notte passata a cercare inutilmente di prendere sonno e a controllare continuamente l’orologio per vedere quanto tempo rimane prima di alzarci per andare al lavoro, e poi riuscire ad addormentarsi solo poco tempo prima che suoni la sveglia.

Quando succede tutto questo si potrà notare che gli avvenimenti che abbiamo vissuto nell’esperienza del sogno, sconclusionati fin che si vuole, questo aspetto non rileva ai fini della presente riflessione, non li avremmo potuti vivere nell’esperienza reale. Ci sarebbe mancato il tempo per farlo.

I dati empirici ci dicono quindi che al quarto d’ora dell’esperienza reale, da me proposto come unità di comparazione, corrisponde un lasso di tempo più lungo di vissuto nell’esperienza effettuata nel mondo dei sogni. Personalmente posso stimare questo lasso di tempo in almeno un’ora.

La prima cosa che sarebbe interessante verificare è se questo rapporto ts/tr è da considerarsi una costante o varia da persona a persona.

Ma la cosa più importante che va rilevata è che il processo di invecchiamento del nostro corpo segue sempre il tempo dell’esperienza reale, sia che noi stiamo vivendo quell’esperienza li, sia che stiamo vivendo quella nel mondo dei sogni. Questo non succede nelle teorie di Einstein, in cui il corpo invecchia sempre secondo il tempo dell’esperienza che sta vivendo la persona a cui quel corpo appartiene.

Il tempo esse per l’uomo è quindi una risorsa meno scarsa del tempo erre. Meno pregiata, se vogliamo.

Non è chiaramente utilizzabile per svolgere attività che richiedono un qualsiasi livello di manualità o l’interazione con altri individui, ma potrebbe essere utilizzabile per svolgere attività puramente intellettuali.

Una sfida dell’uomo moderno potrebbe quindi essere quella di trovare una tecnica che ci permetta di vivere un’esperienza intermedia tra sogno e realtà, per spostare consapevolmente parte delle attività intellettuali all’interno di un sistema in cui abbiamo più tempo per potercene occupare, e salvare tempo erre per attività che possono essere realizzate esclusivamente con il suo impiego, come nutrirsi, amarsi, scaccolarsi ecc...

Ad esempio il povero ingegnere a cui non basta mai il tempo per trovare le soluzioni ai problemi che gli pongono i suoi clienti, potrebbe impiegare tempo esse per l’attività di pura spremitura di meningi e avere quindi a disposizione maggiore tempo erre, che abbiamo visto essere risorsa maggiormente pregiata per lui.

Questa riflessione verrà certamente fatta oggetto di controinformazione oscurantista da parte di comunisti mangia bambini quali quelli del comitato centrale, Carlos e Perfect Element in testa. Cerea.

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editoriale di ALFAMA

La Verità.

Vi siete mai soffermati sul concetto di " Verità". ?

Pensate alla vostra immagine riflessa in uno specchio. Forse è vera ? Sempre uguale ma opposta. Una pellicola Super 8, la vedi controluce è una realtà,ma quando la giri sul vecchio proiettore è una nuova visione,una nuova "verità".

Ho aperto una latina di birra ,mi ha fatto pensare a quante volte ho ripetuto quel gesto. Un semplice gesto, come guardare l'orologio,vedere il tempo e sentirti insignificanti.

La Verità è che siamo insignificante.

Una nullita.Difficile da digerire,ma forse nullità e verità dopo una montagna russa di pensieri si abbracciano ?

Forse lo capisci la mattina quando hai l'acido in bocca della notte e l'immagini che si muovono nel teatro dei ricordi.

Scrivere,scrivere e scrivere,

Ma è così bello pensare che sia vero.?

Bello pensare sia vero quello che scrivi, uno specchio, una latina aperta, uno sguardo al vecchio orologio.

Forse la verità è guardare un vecchio orologio e spostare le lancette'?

Leggere i pensieri che volano come saette?

Esiste una macchina della verità, ecco penso che esisti ma spero di no.

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editoriale di sotomayor

Avevo molte cose da dire sull'ultimo editoriale di Hank Monk, così ho pensato di scriverne un altro in risposta al suo. Fermo restando che questo qui non è un editoriale in polemica con i contenuti del suo, che in poche parole (bravo) esprimeva una pluralità di concetti e quelli che sono dei dati di fatto inconfutabili. Al contrario gli riconosco di avere rilanciato, sotto una prospettiva diversa, un argomento, quello relativo il caso-Weinstein, che io per primo posso dire di avere portato su queste pagine.

Comincio con una premessa fondamentale per specificare una cosa sulla quale non ritornerò più nel corso di questo editoriale e che mi pare inutile di continuare anche a commentare nello specifico: non ho assolutamente cambiato il mio punto di vista. Allora mi sono espresso dichiarando il mio sostegno ad Asia Argento. Ribadisco la mia posizione nel merito, che so non essere condivisa da molti, ma il mio pensiero resta lo stesso. Penso che abbia avuto e stia avendo molto coraggio. E che certe critiche che riceve in maniera esagerata (al di là dei commenti più tipicamente maschilisti) non tengono conto della sua umanità e della sensibilità ferita di una persona che in questo momento ha messo in gioco tutto se stessa su una questione così grave. Così come ritengo che la presenza di un certo maschilismo imperante nella nostra società sia un dato di fatto.

Ma questa volta volevo affrontare l'argomento secondo una prospettiva diversa e che è stata introdotta in qualche modo dall'editoriale già richiamato di Hank e che riguarda un aspetto più relativo una prospettiva riguardante il rapporto tra l'informazione e chi vi accede. È chiaro del resto che il comportamento dei media e conseguentemente delle masse, in reazione a questa vicenda e al suo prolungarsi nel tempo andando a chiamare in causa anche soggetti diversi da Weinstein, sia diventato oltre che la ostentazione persino volgare e deprecabile di atteggiamenti e posizioni maschiliste inaccettabili, anche quello di scatenare e fomentare una certa caccia all'uomo nel mondo dello spettacolo.

Hank Monk nel suo editoriale si riferisce in maniera chiara a Kevin Spacey, facendo un parallelo tra l'attore di Hollywood e le sue vicende e quelle che in qualche maniera (assieme a molte e molte e molte altre) portarono poi a un processo mediatico e che si concluse con la fine (chi lo sa...) del 'berlusconismo'.

Il parallelo tra l'altro, ma questa è una osservazione di 'costume', è in qualche maniera caratteristicamente peculiare perché molti hanno sempre sostenuto che nel caso l'attore americano sarebbe stato perfetto per recitare la parte di Berlusconi in un film. Una osservazione che condivido, anche se personalmente ho sempre ritenuto molto più adatto al ruolo un attore più 'classico' come Leonardo Di Caprio. Ma questa è solo una osservazione diciamo di costume.

La verità è che il parallelo proposto in questi termini è interessante: quanti in Italia, se si dovesse presentare alle prossime elezioni, voterebbero ancora Berlusconi? E quanti ritengono che ieri (cioè pochi anni fa) si stesse molto meglio che oggi? La risposta alla prima domanda è facile: molti. La risposta alla seconda anche: tutti.

Questo succede chiaramente perché la gente tende sempre a ricordare in maniera nostalgica il tempo passato, qualunque esso sia: senza fare nessun plauso particolare alla attuale amministrazione, non mi pare del resto il caso di stare qui a rimarcare la situazione in cui era arrivato il nostro paese prima che si concludesse l'ultima esperienza governativa di Berlusconi e senza considerare il fatto che Berlusconi abbia di fatto governato o comunque inciso sulla politica del nostro maniera per un periodo lungo vent'anni. Sotto questo aspetto dissento molto probabilmente da quello che è il pensiero di Hank. Ma non penso sia questo il punto centrale della questione. Ad ogni modo per quanto riguarda Berlusconi tutto questo va considerato a prescindere poi della sua vita personale diciamo sopra le righe (senza considerare poi la consultazione diretta del parlamento che si inventò di sana pianta una nipote di Mubarak...) e molto spesso anche al di là di ogni regola e che si converrà quantomeno inadatta a un ruolo così importante come quello di guida di un paese civilizzato o presunto tale e che invece, guarda caso, si considera sia perfettamente adatta a una stella del cinema americano oppure a una star della musica rock o in ogni caso a una eminente e popolare figura dello spettacolo. Di conseguenza, perché no, anche ad un attore come Kevin Spacey.

Come partecipanti 'passivi' (questa definizione apparirà a tutti come una forzatura e forse effettivamente lo è) a quelle che sono le esistenze di queste celebrità, per cui si adopera non a caso una espressione, 'divi' e che in quanto tale rimandi a un immaginario appunto divino e ultraterreno, che non possiamo toccare, siamo portati da quella che si può ritenere propaganda oppure una consolidata forma mentis, a considerare che loro tutto sia concesso. Ogni forma possibile e estrema di manifestazione e in qualsiasi settore possibile.

Quando parliamo di queste 'star' e guardate, proprio allo scopo di chiamare me stesso in causa per primo, nomino come esempio quella che io personalmente considero come la rock'n'roll band più grande di tutti i tempi, cioè i Rolling Stones, non solo lo facciamo in una maniera che esprime la certezza di parlare di qualcuno cui tutto sia concesso, ma dove ci aspettiamo addirittura sempre qualche cosa di più. Tanto che alcuni soggetti poi non riescono a uscire da quella interpretrazione di quello che poi dovrebbe essere solo un 'personaggio' (ma come facciamo a tracciare una linea di separazione netta tra le due cose) e finiscono con il distruggere la loro stessa esistenza.

Perdoniamo in maniera inconsapevole e automatica tutto, persino comportamenti inaccettabili e fuorilegge e che sono lontanissimi dalla nostra cultura e formazione ideologica: perché alla fine si è radicata non a caso la convinzione che la loro stessa esistenza costituisca uno show. La accettazione di questa cosa porta a conseguenze che possono essere il già citato bersagliamento nei confronti di Asia Argento (fosse successo a vostra figlia, vostra sorella, vostra moglie, vostra madre, che avreste fatto, come vi sareste comportati, che giudizi avreste espresso) oppure alla caccia all'untore come nel caso di Kevin Spacey, che scopriamo all'improvviso avere una personalità fortemente traumatizzata da sue vicende personali, ma che nondimeno a quanto pare lo abbiano portato a compiere atti di molestie. È chiaro che la prima cosa secondo me vada comunque tenuta in conto nel giudizio all'uomo Kevin Spacey (come peraltro in qualsiasi altro caso), del resto come si dice, 'chi è senza peccato...', ma se ha commesso atti di molestie allo stesso tempo mi sembra giusto che come resta valido per tutti e in qualsiasi caso, questi vengano denunciati e nel caso discussi in tribunale e che lui sia processato. E penso che su questa cosa pochi abbiano da ridire.

Il fatto che sia già stato condannato dai media ancora prima di un processo vero e proprio, purtroppo, fa parte di quello stesso meccanismo che però allo stesso tempo può scatenare anche reazioni opposte. Come non considerare ad esempio la celebrazione e la unanime difesa del mondo dello spettacolo e dei media di Roman Polanski. Un attegiamento da parte di amici e colleghi che nel caso può essere anche comprensibile ove questi siano convinti della sua colpevolezza ma che se espresso pubblicamente diventa - secondo me - discutibile. Vedasi nel caso quello che sta succedendo adesso riguardo Tornatore e le pubbliche accuse di Miriana Trevisan. Chiamata a parlare sulla questione, Monica Bellucci ha giustamente (secondo il suo punto di vista) espresso sostegno al regista. Che magari con lei e che lei sappia ha sempre avuto comportamenti irreprensibili. Eppure magari in quel contesto... Non lo sappiamo. Possiamo solo attenerci alle dichiarazioni dei soggetti chiamati in causa e vedere se ci saranno sviluppi sul piano processuale e giudiziario.

Di nuovo richiamo a proposito le mie stesse prefereze, perché anche io come tutti, ho delle preferenze in campo musicale, cinematografico, letterario e sono evidentemente vittima di alcuni meccanismi. Uno dei miei attori preferiti di sempre infatti è Klaus Kinski. Io adoro Klaus Kinski: lo dichiaro apertamente. Rivendico personalmente di amare questo attore in una maniera significativa, importante e di anche essere affascinato dalla sua figura sotto e lontano dai riflettori. Eppure Klaus Kinski era, è stato da tutti i punti di vista possibili probabilmente quello che potremmo definire un mostro e questo è purtroppo innegabile: alcune vicende ci sono state raccontate direttamente dalle figlie. Ma in generale era risaputo che avesse un carattere quantomeno difficile e pare sussistano anche perizie psichiatriche che lo determinino come un soggetto socialmente pericoloso. Ma sapete in automatico quale processo compie il mio cervello pensando a lui: penso che era un mostro, ma che va bene così, perché voglio dire, in fondo era un genio... Ma questo è un pensiero chiaramente sbagliato. Klaus Kinski è stato un attore fantastico, persino sublime, ma è stato allo stesso tempo un uomo orribile e la prima cosa non giustifica la seconda né è giusto compiere una connessione e un collegamento tra le due cose!

Quello che sta accadendo a Kevin Spacey è sbagliato ed è qualche cosa di deviato perché è deviato il sistema dello star system e guardate che la denuncia fatta da Asia Argento e altri e altre rappresentanti del mondo dello spettacolo va anche in questa direzione: cioè quella di sradicare una determinata mentalità anche allo stesso tempo provando a intaccare questo 'privilegio' che noi abbiamo accordato a attori e registi, musicisti e cantanti, calciatori e alla fine persino personaggi del mondo della politica.

Tutte queste persone hanno un potere specifico all'interno della società e che è dato dalla loro posizione così come in primo luogo dalla propria situazione finanziaria e questa cosa difficilmente cambierà per quello che sta succedendo in questi giorni perché la deriva che si è voluta far prendere alla cosa sposta chiaramente il bersaglio di nuovo su noi stessi e che quindi di nuovo siamo soggetti passivi di tutto quello cui assistiamo, ma allo stesso tempo vi partecipiamo PER FORZA contribuendo ad alimentare determinati meccanismi.

Ci sto: non ha nessun senso fare un processo mediatico a Kevin Spacey come a Berlusconi oppure al primo assassino vero o presunto dei tanti casi di cronaca nera reclamizzati fino allo spasimo da televisione e giornali. Di queste cose per la verità, riguardando aspetti privati e come la maggioranza dei casi di cronaca nera, ci dovrebbe interessare zero: la colpevolezza di queste nefandezze dovrebbe nel caso riguardare solo la giustizia. Ma ci sta una mentalità che riguarda la intoccabilità di determinati soggetti e che sono guarda caso, soggetti 'pubblici', cui ci è stato 'insegnato' che tutto è concesso (ma non ci è stato insegnato del resto anche che tutto ci è concesso sulle nostre donne in generale...) oltre che su determinati temi (e qui si ritornerebbe sulla questione di partenza del mio precedente editoriale, cioè il supporto a una cerca causa contro una mentalità maschilista evidentemente dominante) che va messa in discussione.

Il problema come sempre sta nelle capacità critiche delle persone, ma cominciare a considerare che questi soggetti possono essere colpevoli di cose che voi per primi considerereste sbagliate, può essere un primo piccolo passo per diventare non giudici inflessibili censori ma parte attiva e protagonisti della nostra vita invece che solo spettatori (paganti) inconsapevoli.

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editoriale di Hank Monk

Il mondo di oggi gira davvero in fretta.
Fai appena in tempo ad arginare un problema che l’argine ti crolla addosso.
Fai in tempo a partire che sei già tornato.
Ad innamorarti che sei annoiato.


Prendi, per esempio, il nostro amato ex presidente del consiglio.


Le sue amicizie con Putin e Gheddafi sembrano oggi capolavori di politica estera.
Le sue posizioni anti-Euro un inno laburista alla sovranità monetaria.
L’odio che suscitava motivo di lustro per la sinistra italiana.
Era morto ed è risorto.

L'attacco mediatico a Kevin Spacey ha un che di manicheo e l'ipocrisia debordante che lo pervade mi fa addirittura rimpiangere certe tendenze sessiste passate.


E poi fanculo, mi scopo le marocchine minorenni a pagamento e se mi scoprono do la colpa al capo di stato di un paese del cazzo del terzo mondo!

La natura umana è strana; rovina tutto. Ha nostalgia di tutto.

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editoriale di sotomayor

Ho girato due volte la Sicilia in motocicletta. La prima volta, anzi, per la verità l'ho girata su una vecchia vespa arcobaleno di colore grigio (sembra quasi un gioco di parole) che praticamente, una volta ritornato a Napoli, ho dovuto solo buttare. L'avevo fatta camminare troppo. Troppi chilometri e troppi incidenti. Quella estate tra l'altro il mio (ex) meccanico di fiducia, diciamo così, attentò praticamente alla mia vita. Prima di partire, infatti, gli lasciai la vespa per un check-up totale, una buona prassi che si rispetti prima di intraprendere un viaggio. Questi me la riconsegnò secondo lui perfettamente integra. Fatto sta che in verità egli non svolse nessun controllo particolare e dopo due-tre giorni di viaggio, sulla strada provinciale che in direzione nord/nord-est da Agrigento porta a Racalmuto, il paese dove è nato e vissuto Leonardo Sciascia, la ruota posteriore si staccò letteralmente dalla matrice (il cosiddetto 'mozzo') lasciandomi praticamente fermo. Rimasi completamente immobile e fermo in mezzo alla strada seduto a bordo della vespa cui era rimasta solo la ruota anteriore.

Allora credo di essere stato fortunato: non c'erano macchine che sopraggiungevano alle mie spalle; per una pura combinazione di natura fisica inoltre la vespa si fermò completamente immobile e ben piantata a terra, nonostante io stessi peraltro compiendo il tracciato di una curva. Quindi non sono neppure caduto.

Tutto il resto fu altrettanto fortunato. Perché ero su una strada provinciale completamente deserta e era domenica e batteva forte il sole perché era estate, era fine giugno e fine giugno significa comunque praticamente estate, ma davanti a me vi erano due volontari della protezione civile che per qualche ragione (una deviazione di una delle varie diramazioni della strada provinciale) erano posizionati strategicamente sul posto e che dopo avermi soccorso, chiamarono un loro conoscente, mi pare di Favara, un certo signor Bruno Spatola, che venne sul posto e riparò la vespa montando la ruota sul mozzo con del fil di ferro tagliato con le cesoie da una recintazione del maneggio adiacente la strada.

Una soluzione che definirei artigianale, ma altrettanto brillante e che mi permise di portare a termine il mio viaggio.

Quella giornata guidai su fine a Enna e Caltanissetta e poi giù giù fino a Gela e quindi rientrai all'interno e terminai la mia giornata in quella città bellissima e unica al mondo che poi sarebbe Ragusa con il tramonto che mi sbatteva sulla faccia mentre percorrevo gli ultimi chilometri.

Quando sono tornato a Napoli ho cambiato meccanico.

Mentre relativamente il signor Spatola, va detto che questi non era un meccanico, ma semplicemente un grande cultore della vespa come mezzo di locomozione. Cosa che chiaramente fece sorgere in lui un affetto e una simpatia particolare nei miei confronti, rafforzata dal racconto del viaggio di nozze dei miei genitori nella ex Jugoslavia nel 1980 a bordo di una vespa Sprint blu che orgogliosamente possediamo ancora e custodiamo giustamente come un bene di famiglia: come se fosse qualche cosa di importante. Semplicemente perché lo è. Dopo aver sistemato la vespa il signor Bruno Spatola non volle nulla per il disturbo: era venuto fin lì da Favara (quel giorno casualmente da quelle parti c'era anche un moto-raduno) una domenica mattina di estate, ma non volle nulla per il disturbo. Anzi embrava felice di avermi aiutato e in effetti lo era. E anche io sono stato felice di averlo incontrato. Non perché mi abbia riparato la vespa. Questo è importante, ma alla fine è secondario. Sono stato felice di averlo incontrato perché era una brava persona.

Questo credo sia successo sei oppure sette anni fa.

Era l'estate del 2011.

Il giorno prima, mentre guidavo da Marsala ad Agrigento, allargandomi volutamente per i percorsi 'paesaggistici' costieri, passai per Mazara del Vallo, uno dei porti commerciali principali della regione e da dove partono i traghetti per la Tunisia. Più precisamente per quella città che si chiama Hammamet e che costituisce ancora oggi meta di pellegrinaggio, giuro, delle figure più eminenti, diciamo così, che gravitavano e grativano attorno l'orbita di quello che una volta si chiamava PSI.

Era il 2011 comunque. Me lo ricordo bene anche perché in quel periodo secondo quello che ci raccontavano i mass media, tutto stava cambiando in Nord Africa. Io invece avevo cominciato a stare male e da allora questo processo non si è mai arrestato aggravandosi di anno in anno e volevo andare via, scappare, cambiare nazione, sparire e non tornare mai più a casa.

Qualche mese dopo ci provai a scappare. In Germania. Berlino. Riparai lì un gelido inverno prima di ritornare a casa dopo avere visto l'Hertha pareggiare 1-1 in casa con il Wolfsburg sotto una tempesta di neve. Sulla panchina dell'Hertha sedeva Otto Rehhagel, l'allenatore che nel 2004 aveva fatto vincere i Campionati Europei di Calcio alla Grecia. Un tedesco che fa vincere la Grecia. Ma questo succedeva nel 2004 e nel 2004 secondo quello che ci raccontavano i mass media, tutto stava cambiando in Grecia e così ...

Comunque la notte dopo la passai con Chiara: fu la nostra ultima notte. Vomitai ininterrottamente il sushi che aveva cucinato. Non l'ho mai più rivista. Non ho mai più mangiato giapponese. Senza di lei la cosa non avrebbe avuto più senso. Non ha nessun senso. A volte le donne pensano che tu faccia qualche cosa che di solito non fai, solo per loro oppure con loro e per farle un piacere oppure una concessione e questa cosa a loro non piace perché sembra quasi che tu faccia qualche cosa perché dopo ti aspetti qualche cosa in cambia. Per quanto mi riguarda non è così: tutto quello che faccio, seppure non rientri nella mia quotidianità abituale, lo faccio proprio perché ritengo abbia un senso farle assieme e in quel determinato momento specifico. Oppure come una specie di rituale. Perché no.

Del resto se dovessi fare comunque sempre le stesse cose che faccio da solo, che ci sto a fare con una ragazza.

A fine campionato l'Hertha Berlino retrocesse meritatamente in Serie B.

Mazara del Vallo invece credo sia una realtà difficile: voglio dire che è apparentemente un posto difficile dove vivere. È unitamente a Gela, forse Porto Empedocle, Augusta e sicuramente dei posto sperduti là tra le montagne nel cuore della regione, il posto che più tra tutti nella regione mi ha trasmesso una certa 'durezza'. Ma posso sbagliare e comunque questa non vuole certo essere una critica ai suoi abitanti. Va detto infatti che ovunque in Sicilia (ci sono stato più volte e praticamente dappertutto) ho sempre e solo trovato gente cordiale e accogliente. Ma come dicevo prima: forse sono stato fortunato.

Comunque quando mi sono trovato davanti al porto e al punto di imbarco delle navi, ho fermato la vespa, sono sceso, l'ho messa sul cavalletto e mi sono tolto il casco.

Eravamo io e il mare. Tutto quello che mi divideva da un altro continente e da un'altra vita: dalla fine di tutto quello che aveva riguardato la mia vita di merda fino a quel momento. Solo una nave che avrebbe percorso in poche ore il Mare Mediterraneo da una parte all'altra e mi avrebbe praticamente traghettato da una esistenza a un'altra.

Non avrei mai informato nessuno della mia scelta e una volta dall'altra parte, chi lo sa, mi sarei subito messo in moto per far perdere le mie tracce. Sarei andato avanti per un po'. Avrei continuato a guidare finché avrei potuto. Poi non lo so. Magari mi sarei fermato da qualche parte. A un certo punto avrei sicuramente finito i soldi. Ma pensai che a quello mi sarei preoccupato solo dopo. Del resto che importava. Per quanto mi riguarda una volta lì avrei pure potuto decidere di farla finita del tutto. Materializzai l'idea che a quel punto, quando sarei stato dall'altra parte, avrei potuto farlo veramente: perché sarei stato solo e quando sarei stato solo, veramente solo, sarei stato libero di vivere la mia vita ma anche libero di morire se lo avessi deciso. Se fosse succeso. Come se restare significasse in qualche maniera che tanto vivere quanto morire fosse impossibile.

Voglio dire, alla fine non dovevo per forza ricominciare da zero se non me la sentivo. Però quando sarei stato dall'altra parte, sarei stato finalmente veramente solo e in questo modo libero.

Non lo so quanto tempo sono rimasto lì fermo. Forse sono stati solo cinque minuti: cinque minuti, dieci, quindici. Ho fumato una sigaretta e ho pensato e ho visto tutte queste cose. Ma ho anche visto mia madre che piangeva per la mia scomparsa e ho visto mio padre, che avrebbe pensato che fosse stata colpa sua e che non avrebbe mai potuto curarla dalla sofferenza che le avrei arrecato; ho pensato che i miei fratelli avrebbero praticamente perso anche loro una famiglia a questo punto e sarebbe stato tutto per colpa mia. Ho pensato anche che per tutte queste ragioni da questa vita non potevo e non sarei mai potuto scappare allora come in futuro se non in una maniera così estrema, radicale. Senza compromessi. O bianco o nero. Come dice mia madre. Non conosco le gradazioni di colore infinite che passano da un estremo all'altro.

Sono testardo oppure forse mi piace semplicemente essere così.

Così non ho scelto oppure, meglio, ho fatto quello che dovevo fare e che però non so se fosse quello che volevo veramente fare: mi sono infilato nuovamente il casco, ho rimesso in moto la vespa e mi sono lasciato l'Africa alle spalle oppure - meglio - sulla destra, mentre continuavo la mia strada senza nessuna meta particolare. La sera arrivai ad Agrigento, ma la Valle dei Templi aveva già chiuso. Mangiai ottimamente a un piccolo ristorante all'aperto in una piazzetta nascosta alle spalle della strada principale della città vecchia.

Il giorno dopo mi rimisi in viaggio e quella giornata incontrai Bruno Spatola, una persona che non dimenticherò mai.

Foto: la mappa del mondo ricostruita secondo Eratostene di Cirene, terzo bibliotecario di Alessandria, 200 a.c.

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editoriale di ThorsProvoni

E direttamente da Giallozafferano, come direbbe qualcuno, ecco il mio nuovo deeditoriale (senza polemiche eh, si fa per ridere... ).

Sapevate che il Monte dei Paschi di Siena è ‘la banca’ del Testimoni di Geova?

Mi direte: porta le prove! E io vi rispondo: le prove provate, le carte insomma, non ce l’ho, ma sono affermazioni che si trovano tranquillamente girando per il fantastico mondo del web. E non su siti bufalari, ma su pagine serie e verificabili.

Ma non mi interessa parlare di banche, oggi. Era solo un modo per introdurre l’argomento del mio qui presente deeditoriale: alcuni aspetti della fantastica vita dei Testimoni di Geova (da ora in poi TdG).

Cominciamo col dire che i TdG non sono cristiani.

Essi infatti non credono in due dei principali punti del Credo a cui si attengono tutti i cristiani: divinità di Cristo e realtà della Trinità.

Non è questo il momento per approfondire queste cose, e non lo farò, ma è così, fidatevi.

Quindi se doveste incontrarli avete già un’arma per controbattere.

Anzi no, l’arma migliore con loro è quella orale: dite che non vi interessa. Perché state certi che un qualche discorso riescono sempre ad impiantarvelo, e a quel punto siete fritti, per quanto preparati possiate essere.

I TdG infatti hanno i loro 15-20 versetti che vi condiscono in tutte le salse, molto spesso tradotti non correttamente. Loro stessi lo ammettono: esiste una traduzione esatta delle Scritture, edita da loro, che però persino nessun TdG può consultare: riporta la traduzione corretta e poi il testo che, comunque, c’è nelle loro Bibbie (la Traduzione dal Nuovo Mondo delle Scritture).

Ma neanche di questo voglio parlarvi oggi. Perciò veniamo al punto, anzi ai punti.

Vorrei infatti deliziarvi con alcune proibizioni che i TdG devono rispettare, pena la censura e persino la dissociazione (qualche volta vi parlerò di questa cosa, perché è seria che ha portato e porta ogni anno anche a diversi suicidi… ).

Per ogni proibizione riporterò anche il testo dei TdG dove è riportata; per molti, i testi sono plurimi, ma ne citerò solo uno. In fondo alla pagina troverete il significato delle sigle.

Tralascio i più classici come il divieto di trasfusione e di trapianto (ma ora stanno cambiando politica in proposito) e quello di festeggiare il Natale e altre festività religiose.

Alcune sono così strane e strampalate che non riesco neanche ad immaginare quale motivo anche solo umano ci possa essere.

Eccole:

- non si può augurare ‘salute’ quando qualcuno starnutisce (Sv 2273/63)

- non si possono vedere teleromanzi in TV né portare la barba (TdG 15.07.87)

- non si possono praticare sport professionistici (Sv 8.11.86)

- non si può partecipare ad attività extrascolastiche come quelle sportive organizzate dalla scuola stessa, balli studenteschi, elezioni di miss di qualunque genere e nemmeno per fare il capoclasse (opuscolo Sj)

- non si possono mandare i bambini all’asilo (Sv 8.5.79)

- non si può far parte di una giuria (TdG 74)

- non si può pensare (!!??) perché è dannoso (TdG 15.1.68)

(io mi fermeri qui, ma mi faccio forza e proseguo)

- non si può praticare la danza classica (TdG 1.7.76)

- non si possono, nella celebrazione del matrimonio, mettere confetti nei sacchetti delle bomboniere, usare le marce nuziali, gettare il riso sugli sposi (Km 7/67)

- non si può lavorare in una ditta che produce articoli natalizi, in un bar o altro luogo dove si vendono tabacchi, biglietti di lotterie e schedine del totocalcio (Km 3/74)

- non si può mangiare un animale ucciso ma non dissanguato secondo le loro regole (un po’ come ebrei e mussulmani) (opuscolo 1968)

- non si possono mangiare uova, lepri e conigli pasquali (Sv 22.3.86)

- non si può frequentare l’università (lettera del 7.12.85); scrivere o spedire lettere ai giornali senza averle fatte leggere agli anziani (circolare 25.1.90)

- non si può partecipare a servizi funebri o altri riti al di fuori della loro comunità (TdG 1.10.61) né a feste in famiglia: onomastici festa della mamma e del papà, s. Valentino, 1° maggio… (TdG 1.12.68)

- non si può accettare né leggere stampa che non sia dei TdG (Km 1/86)…

E, dulcis in fundo, se avete il mal di testa, tenetevelo: è vietato fare uso frequente di pillole per l’emicrania (Lettera del 7.12.85)

Mi sembra che per stasera possa bastare così.

P.S.: come promesso ecco le sigle, per correttezza…

Sj: I TdG e la scuola - Sv: Svegliatevi - TdG: Torre di Guardia - Km: Ministero del Regno

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editoriale di zaireeka

"Esistono due momenti fondamentali nella vita.

Uno in cui l'Universo viene a noi, ed uno in cui noi andiamo all'Universo.

In mezzo c'è solo la Poesia del Tutto" .

Stasera, guardando il cielo al tramonto sopra i palazzi, ripensavo al fatto che in tutto l'Universo non esiste un punto che possa essere definito il suo centro.

Lo dice la scienza, da un po' di tenpo a questa parte.

L'unico punto che può essere definito tale alla fine, almeno per me, è quel punto speciale da cui lo osservo io, l'Universo.

Anni fa, quando mia figlia era molto piccola le chiesi (è una storia vera):

"Tesoro, la vedi la luna? Di chi è la luna?"

"Mia" mi rispose veloce.

Qualche mese dopo le feci la stessa domanda.

"Del cielo" mi rispose.

Un anno dopo le feci di nuovo la stessa domanda.

"Di tutti" mi rispose.

"Benvenuta su questa terra, tesoro mio" le dissi, senza farmi sentire.

Non so a quanti di voi è capitato uno di quegli episodi in cui vi siete trovati ad essere sovrappensiero ed avete effettuato azioni di cui un attimo dopo non ricordate nulla.

Un caso tipico è quando non ricordate se avete chiuso la macchina, o la porta di casa, tornate indietro e scoprite inesorabilmente che la macchina, o la porta di casa, è perfettamente chiusa.

Non potreste mai immaginare che in quei pochi attimi siete stati, una delle poche volte nella vita da svegli, davvero parte dell'Universo.

Di solito siamo chiusi in una gabbia illusoria, chiamata coscienza, a guardarci allo specchio.

Secondo certe correnti di pensiero la coscienza umana è solo un incidente nel percorso evolutivo della razza umana.

La nostra vera natura finale, quando l'Universo avrà finalmente imparato davvero a badare a se stesso, è essere dei robot senza coscienza al Suo servizio, al servizio della Natura, del Tutto.

Cosa possiamo fare nel frattempo?

Trovare un’alternativa.

Aiutare l’universo che si riflette in noi, senza mai poter essere afferrato, a ricostruire la sua perduta unità senza necessariamente, un giorno, farci chiudere gli occhi per sempre.

Riappropriarci della luna.

Tutto e' metafora.

Se non ci fosse metafora non ci sarebbe significato, come dice Hofstadter.

Se non ci fosse la metafora non ci sarebbe la poesia.

La Poesia del Tutto un giorno ci aiuterà a capire l’Universo, a capirne il significato, a ritrovarne l’Unita’.

"Il rombo di un’orchestra è il pieno orchestrale di un aereo che decolla"

"Le battute dalla duecentoventicinque alla duecentotrentanove (*) del primo movimento del secondo concerto per pianoforte e orchestra di Sergei Rachmaninoff contiene il battito di ali di un uccello che cerca di spiccare il volo contro un vento in tempesta".

"C'è un elefante che volteggia nel cielo".

Ma, se è così, la mia vita, tutte le mie parole, tutte le nostre parole, di cosa sono allora la metafora, di cosa il verso, se non dell’Uni-verso?

(*) Minuto 5:20 https://www.youtube.com/watch?v=x8l37utZxMQ

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editoriale di ThorsProvoni

L’Olanda, dicono, sia uno dei paesi europei più avanzati quanto a legislazione che va ‘al passo coi tempi’ (qualunque cosa voglia dire ‘coi tempi’).

Proprio nel paese dei tulipani, di Ruud Gullit e della Donkervoort (come: cos’è la Donkervoort? È la macchina che vedete su in foto!) ho scoperto il LAT.

LAT è l’acronimo di Living Apart Together. Ed è una legge.

Praticamente: sei sposato, anche con figli? Anche da molti anni? E non sopporti i piedi freddi del tuo partner (banalizzo, ma non troppo… )?

No problem! La legge, appunto il LAT, ti permette di vivere non in due stanze separate – che d’altra parte a casa sua ognuno fa quel che vuole – ma addirittura in due appartamenti separati!

E i figli possono stare dove volete voi e per il tempo che volete voi. Tipo pacco.

Pare che questo sia ormai un modo abbastanza comune di praticare la convivenza matrimoniale anche in Francia e Scandinavia e, soprattutto, che sta prendendo piede anche in Italia.

Anche se nel paese del panettun, di Paolo Rossi e della Fiat (ma la Fiat esiste ancora? E quel che ne resta è ancora italiana?) la legge non lo prevede e permette.

Direte che nessuno ci ha ancora pensato o che da noi comanda il cupolone papalino e queste cose non si fanno. Non so, ma in Italia, che io sappia, se sei sposato hai l’obbligo della coabitazione. Anche se poi c’è la possibilità di avere residenze separate per motivi di lavoro, ecc. ecc. . Ma questo è un discorso diverso.

In Olanda non c’è bisogno di un motivo particolare per usufruire del LAT: cambi casa e basta.

Naturalmente non c’è bisogno neanche di specificare in quale dei due appartamenti i due coniugi assolveranno al loro obbligo matrimoniale più interessante e godereccio.

Ora, capisco chi lo fa perché deve stare ancora a casa di mammà per motivi economici.

Ma qui qualunque motivo è buono: c’è chi lo fa perché non sopporta qualcosa del partner, chi vuole ‘avere i suoi spazi’, chi non può vedere gli amici del coniuge, chi non vuole alzarsi al mattino e dover condividere con l’altro quei momenti delicatissimi che ti possono indirizzare la giornata in un verso o nell’altro. Motivi che vengono definiti ‘sociologici’ dai diversi studi sul fenomeno.

Insomma: si può vivere come perfetti sconosciuti o amici che si incontrano ogni tanto per fare uno scambio di sudate (per citare Woody Allen) o per gustare il pollo alla brace con patatine e rosmarino. E rimanere legalmente sposati a tutti gli effetti.

A questo punto, io chiedo: ma allora, che vi sposate a fare?

Oggi come oggi anche in Italia, grazie alle ultime leggi, le coppie ‘di fatto’ sono tutelate praticamente alla pari di quelle sposate; quindi perché arrivare davanti al sindaco o al parroco e firmare un qualche registro? Solo per provare il brivido di vedere come viene la foto di rito? O provare l’effetto che fa il riso che s’insinua nella scollatura della sposa?

Il matrimonio penso, anche al di là di una connotazione ‘religiosa’, è voglia di stare insieme, condividere, litigare e fare pace, giocare insieme coi figli, ‘costruire un progetto’ (come mi vengono bene oggi le frasi!). E per fare questo devi avere tra i piedi l’altro/a.

Dice: ma se la convivenza è difficile? Io non lo conoscevo, non sapevo che l’alito gli puzza, che rutta durante le partite in TV della Sanremese (per dire) e non apparecchia mai la tavola.

Ma perché, oggi si va a vivere sotto lo stesso tetto solo dopo il matrimonio? Nessuno convive prima? Queste cose, non le sapevi già?

Non capisco, proprio non capisco…

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editoriale di Taurus


Non sono portato per carattere agli strombazzamenti e ai facili ammiccamenti, odio i selfie allo specchio e quelli con la bocca a culo di gallina, i like tattici su Facebook e gli atti di reciproco onanismo consuetudinario perché lo richiede la prassi. Però riflettevo su un po’ di cose ed è arrivato il tempo di renderle pubbliche.
Sono circa 10 anni che partecipo più o meno attivamente a Debaser, sono più giovane anagraficamente dell’80% dell’utenza del sito, ma sono più vecchio di molti di voi debaseristicamente parlando.
E allora cosa mi spinge a rimanere ancora attivo dopo tanto tempo? Si potrebbe dire che la genuinità di Debaser, nel bene e nel male, rimane ancora oggi insuperabile. E da un punto di vista qualitativo Debaser non ha nulla da invidiare ai “professionisti della critica musicale” dei vari Ondaclock e webzine digitali concorrenti. Del resto mi fido molto di più di un recensore amatoriale, che di qualche editorialista o caporedattore un po’ furbetto che riceve accrediti e pile di dischi in omaggio ogni settimana. E ai recensori per la maggior parte, i cui molti nickname meritebbero un altro editoriale a latere, competenza e preparazione non sono mai mancati, ma è la passione l'elemento fondamentale che non manca mai a chi dedica spazio e tempo per dare il proprio piccolo contributo per arricchire sempre di più il sito.
E poi il cuore pulsante di Debaser, la sua fenomenologia antropologica è sempre stata scritta nello spazio dedicato ai commenti: un tempo anche anonimi, hanno rappresentato un gran punto a suo favore. E se all’anarchia e al goliardismo ricettistico sotto i pluridoppioni dei tempi andati si è sostituito una sorta di ‘volemose bene’, i commenti rimangono un irrinunciabile strumento di confronto, civiltà (si narra però che il tempio di Deb sia stato costruito sugli antichi resti di un'arena fatta di sangue, polvere e lacrime) e discussione con cui poter interagire con altri utenti e generare discussioni circa l’opera, l’artista o lo scritto.
Avete mai visto cosa succede su Ondaclock quando provano raramente e sciaguratamente ad attivare i commenti per le recensioni? Di musica si deve discutere democraticamente, non è un monologo. Tu scrivi, io ti leggo e ho il diritto di poter intervenire. Tu decidi che hai qualcosa di interessante da dire, io ti dedico del tempo aprendo la tua pagina, è un gioco reciproco delle parti. Ecco dove sta la bellezza di Debaser: non si ammettono monologhi senza contraddittorio. Se dici una cagata, affermi un’inesattezza non puoi disattivare i commenti e nasconderti. Probabilmente venisse soppressa la sezione dei commenti, credo smetterei di scriverci.
Aggiungiamoci alla discreta fetta di utenza attiva una notevole ed eterogena offerta musicale ed extramusicale che ha veramente poco da invidiare a quella di altri siti web. E soprattutto la libertà di poter recensire il disco dei tuoi sogni (o dei tuoi incubi) liberando la fantasia e utilizzando gli approcci preferiti come meglio credi (magari non parlando per niente del disco e divagando? Yeah!), e quanto meglio credi senza scadenze temporali.

E adesso tutti in coro: La mucca è morta, viva la mucca.

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editoriale di ThorsProvoni

Oggi due parole così, per farsi del male.

Qualcuno, su questa terra debaseriana, ha risposto giorni fa a questa mia osservazione in un mio editoriale: "non ho trovato da nessuna parte come deve essere fatto un editoriale" con questa citazione:

"L'editoriale è l'articolo di apertura di una pubblicazione periodica in cui il direttore o un giornalista molto esperto e conosciuto dal pubblico (una «grande firma») tratta un problema o un fatto di rilevante attualità.".

Dal che ho capito che non potrò mai scrivere (almeno su DeBaser) un editoriale perché:

1. non siamo su una publicazione periodica;

2. non sono il direttore;

3. non sono un giornalista;

4. non sono molto esperto né conosciuto, né come giornalista né come imbianchino;

5. non tratto mai problemi o fatti di rilevante attualità.

Purtuttavia sto a scrivere deeditoriali. E lo stesso fate voi.

Questo fatto, quindi, penso mi esima dal rispettare le regole di cui sopra (essere giornalista... fatti rilevanti... ), così come esime voi.

Ora vengo al punto, prima che passino i 12 minuti in cui, si dice, la mente umana è capace di prestare attenzione a qualcosa.

Quando venni attirato in questa trappola debaseriana da un affiliato innominabile, mia intenzione era quella di manifestare al mondo intero la mia eloquenza, conoscenza e capacità d'esprimermi (non per forza in questo ordine) su alcuni argomenti invisi ai più: teologia, Bibbia, fede, ecc. .

Nello specifico, perciò, colgo l'occasione per dirvi che ogni volta che avrete una notifica che vi dice che ho deeditoralizzato, potreste trovarvi (ma non sempre sarà così) di fronte ad uno degli argomenti sopra enunciati.

Certo il tema potrebbe anche non essere direttamente quello, ma state pur certi (e sicuramente l'avrete già notato) che se parlo di qualcosa lo farò a partire dalle mie convinzioni.

Naturalmente siete liberi di andare a leggere o di tenervi alla larga.

Debaseriano avvisato, mezzo salvato. L'altra metà spetta a voi.

P.S.: non la volevo mettere così tragica e/o drastica, ma ho avuto brutte esperienze su altri social (non parlo di FB o Twitter), fino a doverli abbandonare avendo trovato 'buontemponi', diciamo così, che ad ogni pubblicazione riempivano i commenti di off topic, parole poco decenti, offese et similia.

Io accetto ogni commento che esprima un'opinione (poi posso rispondere o meno... ), ma rifiuto espressioni che poco hanno a che fare con la normale e civile comunicazione. Se scrivo è perché voglio offrire spunti per parlarsi, scambiarsi idee, punti di vista e mi sembra che, finora, in quest'universo debaseriano si possa fare.

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editoriale di Cialtronius

è un raccontino horror, lo scrissi quando avevo 25 anni.

IL VIAGGIO
Marco e Gregorio si misero in viaggio con calma, dopo pranzo, con l’automobile di Marco, una Y10 del ‘92.
Gli altri 4 invece avevano preso il treno alle 6 del mattino così sarebbero arrivati in albergo verso l’ora di pranzo e nel pomeriggio avrebbero potuto già lanciarsi sulle piste innevate.
La settimana bianca.
Marco e Gregorio non erano mai stati in settimana bianca, non sapevano neanche sciare.
Quei 4 invece, non solo erano sciatori provetti, ma erano anche organizzati molto bene con le loro tute da sci fiammanti, sembravano tute spaziali, gli sci, il casco, super accessoriati.
Marco e Gregorio li avevano accompagnati al negozio sportivo giorni addietro e i 4 avevano speso un occhio della testa per acquistare tute, sci e altri accessori.
Fighetti del cazzo, stronzetti radical-chic; questo pensava Marco di loro.
Li aveva conosciuti tramite Gregorio, erano amici di Gregorio dell’università.
Marco invece non studiava, faceva il barista e non sapeva bene cosa volesse dalla vita.
Nonostante avesse quasi 30 anni, viveva alla giornata.
Il viaggio fu molto lungo; Marco si fermava spesso agli autogrill, caffè e sigaretta, la pipì, un panino.
Dopo 11 ore di viaggio, erano quasi arrivati in albergo.
Stavano percorrendo l’ultimo tratto di strada, una strada di montagna, stretta e piena di curve, ancora pochi chilometri e sarebbero giunti a destinazione.
Ad un tratto la macchina iniziò a sobbalzare, ad arrancare sulla strada, perse colpi e si spense.
Il motore borbottò come un vecchio animale ferito, l’eco si propagò nella valle e dopo alcuni secondi, si spense.
La benzina!
Gregorio sbottò: “Te l’avevo detto che era meglio metterne un po’ all’ultima sosta ma tu no no ce la facciamo la conosco la mia macchina, la riserva dura tanto eeee… ma vaffanculo va!”
“Ok ok non ti agitare …adesso li chiamiamo e diciamo loro di portare una tanica di benzina” disse Marco, ma in quel tratto di strada i cellulari non prendevano, non c’era la copertura.
Senza benzina a 10km dall’albergo alle due del mattino, a Febbraio, in Trentino Alto Adige.
La temperatura esterna era -11°, faceva freddo, molto freddo.
“Porca troia!” urlò Marco.
Cosa fare?
Era quasi impensabile tentare di arrivare a piedi, 10km a piedi con quel freddo e con quel tempo da lupi ma lupi non ce n’erano, anzi, sembrava proprio che non ci fosse anima viva intorno.
Uscirono dall’automobile infagottati e infreddoliti per guardarsi intorno ma non scorsero anima viva, non passava nessuno.
La situazione era drammatica: se avessero passato la notte in macchina e si fossero addormentati sarebbero passati dal sonno alla morte per assideramento.

IL VECCHIO
Decisero di provare ad incamminarsi nonostante il freddo e subito dopo la curva, la videro.
Un’area di servizio con la pompa di benzina!
Un colpo di fortuna!
Raggianti, tornarono verso la macchina e la spinsero per un centinaio di metri raggiungendo la piazzola di sosta; sì, era proprio un’area di servizio.
C’era la pompa per la benzina, c’era un piccolo chiosco.
L’area di servizio era illuminata a giorno e pulitissima.
Non una cicca in terra, né una foglia o una cartaccia, niente di niente.
Tutto a norma di legge; illuminata a giorno, l’estintore con l’etichetta, il secchio di sabbia, i segnali di divieto di fumo, il rotolo di carta per pulirsi le mani, il secchio dei rifiuti, c’era tutto.
Le cromature della pompa di benzina brillavano sotto la luce artificiale; tutto era nuovo di zecca, forse l’avevano aperta da poco, forse non c’era nessuno e non era un self-service, forse non erano stati poi così fortunati.
Si guardarono intorno e, nell’oscurità, appena dietro il chiosco, lo videro.
C’era un uomo, un vecchio, e stava pisciando.
Finito che ebbe di pisciare, il vecchio rimise dentro il pisello senza neanche sgrullarlo e senza chiudersi la patta dei pantaloni e con un piglio deciso ed un passo rapido a dispetto della sua età, poteva avere 80 anni, appena li vide si avviò verso di loro entrando nella zona illuminata a giorno dell’area di servizio.
Che tipo!
Indossava una camicia di flanella rossa e blu, la classica camicia del taglialegna canadese, una camicia sporca, macchiata, logora.
Indossava soltanto una camicia nonostante il freddo glaciale!
Pantaloni di velluto marroni, la patta aperta, ancor più sudici della camicia se possibile.
I capelli unti, lunghi fino alle spalle, tirati all’indietro, bianchi - anzi no giallini - sporchi.
La barba di 3 giorni, rughe irregolari e profonde solcavano il suo viso da vecchio, 3 o 4 denti in bocca storti e giallognoli e sorrideva mentre veniva incontro ai due ragazzi.
Due occhietti grigiastri, piccoli, vispi, incassati nelle orbite, grandi orecchie, un grande naso bitorzoluto, una bocca larga e semi-aperta, ma non era il lupo cattivo, forse.
“Ehilà, ragazzi! Finita la benzina?” disse il vecchio.
“Entrate il caffè è sul fuoco” e senza attendere la risposta dei due ragazzi, il vecchio era già dentro e in pochi secondi aveva disposto le tazzine per il caffè su di un piccolo tavolino che si trovava all’interno del chiosco, una sorta di piccolo ufficio, anche questo pulitissimo, tirato a lucido, ordinato.
Marco e Gregorio erano incerti sul da farsi ma sembrava non avessero alternativa, inoltre il profumo del caffè caldo e la prospettiva di scaldarsi un po’ dissiparono in pochi secondi eventuali riserve.
“State andando all’hotel ‘La Baita’ vero? Dovete fare ancora una decina di chilometri”
Il caffè era buonissimo, servito in raffinate tazzine di porcellana col piattino sotto, roba di classe.
“Sì” disse Marco “….stiamo andando all’hotel ‘La Baita’ per la settimana bianca, noi siamo partiti dopo pranzo da Roma, i nostri amici invece son partiti stamattina presto e sono già su, ci aspettano”
“Quei 4 fighetti del cazzo! stronzetti radical-chic!” esclamò il vecchio e nel dire ciò il suo volto da bizzarro ma bonario si trasformò in una maschera ghignante e parossistica; fu un attimo, ma fu terrificante.
Gregorio divenne bianco dalla paura, avrebbe voluto dire qualcosa ma era come paralizzato e, in realtà, aveva avvertito la netta sensazione di un grande disagio non appena il vecchiò sbucò dall’ombra dopo aver pisciato.
L’atteggiamento di Marco invece era del tutto diverso, era come divertito, non si rese neanche conto che il vecchio aveva utilizzato, per i 4 ragazzi, le stesse parole che aveva pensato lui.
“Massì” proseguì il vecchio “sono i classici figli di papà, che vanno all’università, che han quasi 30 anni ma che sono ancora a metà con gli studi, che fanno tanto i sapientoni ma non hanno mai lavorato un giorno in vita loro, meritano di morire …che cazzo campano a fare?”
“Mi scusi, ma cosa sta dicendo? Co-come si permett…” era Gregorio; balbettava, tremava, un filo di voce ma il vecchio lo incalzò come un fiume in piena; Marco sorrideva.
“Perché non li ammazzate? 2 a testa… tu ne fai fuori 2 e tu gli altri due… ammazzateli quei 4 stronzi! …facciamo un patto …se li ammazzate io vi faccio il pieno gratis ok? …qua la mano” e tese la mano verso i due, una mano grande, forte, tesa, immobile.
Il vecchio è completamente pazzo, pensò Gregorio col cuore in tumulto, Marco continuava a ghignare divertito, rilassato.
“Ok, ci sto, qua la mano vecchio mio!” disse Marco.
E fu così che il vecchio e Marco stipularono il patto.
“E ora tu!” disse il vecchio a Gregorio “su dammi la mano che aspetti? Due a testa! Un patto è un patto e va rispettato!”
Il vecchio sembrava eccitato, il tono della sua voce era potente, sembrava davvero convinto di quel che diceva.
Gregorio era paralizzato e fu Marco a rompere gli indugi.
Prese da sotto il tavolo il braccio di Gregorio e lo portò vicino alla mano del vecchio che era di nuovo tesa.
Il vecchio afferrò la mano di Gregorio e gli scosse il braccio in una stretta di mano vigorosa, serrata, implacabile.
Gregorio al contrario era come spossato, senza forze, non riusciva a parlare, voleva solo uscire da quel posto.
“E’ andata! Abbiamo stipulato il patto! 2 a testa 2 a testa!” urlò il vecchio trionfante.
In un attimo si alzò, ripose le tazzine ed uscì fuori iniziando a fischiettare il motivetto del film ‘Il ponte sul fiume Kwai’.
Con gesti rapidi e aggraziati era già fuori, pronto a fare il pieno alla macchina; aveva estratto la pistola e programmato il pieno.
Dopo pochi secondi la lancetta della benzina era già tutta a destra, nel serbatoio, erano stati erogati circa 30lt di benzina.
“Fatto!” esclamò il vecchio.
Gregorio, ancora visibilmente scosso nonostante fosse entrato in macchina, fece per prendere il portafogli ma il vecchio se ne accorse subito e gli disse: “ragazzo? Che fai? Il pieno è gratis, abbiamo stipulato un patto! Un patto è un patto e va rispettato! 2 a testa! 2 a testa! Ammazzateli come cani, quei luridi topi di fogna! Ah ah! … Ah Ah!” …e iniziò a battere le mani ritmicamente Ah Ah! CLAP! Ah Ah! CLAP! producendo un rumore secco, uno schiocco di frusta che squarciò il silenzio della valle circostante.
Marco salutò il vecchio per l’ultima volta e mise in moto, continuava ad avere quel ghigno curioso, come di chi la sa lunga ed iniziò a fischiettare il motivetto del film ‘Il ponte sul fiume Kwai’.

LA TELEFONATA
Raggiunsero l’albergo e si sistemarono nella stanza.
Era una stanza confortevole con due posti letto, il bagno in camera, la tv ed il telefono.
Il cellulare di Marco squillò, Marco rispose.
“Sì… certo, sarà fatto, un patto è un patto…” disse Marco. 2 a testa! 2 a testa! La voce inconfondibile del vecchio, Gregorio la sentiva benissimo nonostante Marco avesse l’apparecchio attaccato all’orecchio, era la sua voce, acuta e potente.
Come aveva fatto ad avere il numero del telefonino di Marco?
Gregorio, seduto sul bordo del letto, non fece in tempo a finire di formulare questo pensiero che squillò il telefono fisso della stanza.
Gregorio come in trance alzò la cornetta.
“ehi! Ragazzo! Dico anche a te sai? Un patto è un patto, ne dovete ammazzare 2 a testa, 2 a testa! …e poi tu non mi piaci per niente, finirai male!”
Il vecchio era contemporaneamente su due linee telefoniche!
Gregorio riagganciò e disse a Marco che era necessario andare subito alla polizia a denunciare l’accaduto.
Marco lo tranquillizzò “Gregorio ma che cazzo stai dicendo? Ma ti rendi conto che il vecchio scherza? È un burlone, ci ha offerto il caffè e ci ha fatto il pieno gratis che vuoi di più?”
Gregorio non si calmò affatto e cercò di fargli notare come fosse possibile che il vecchio avesse il suo numero di telefono che avesse chiamato la stanza d’albergo parlando contemporaneamente con entrambi eee…
Niente da fare, Marco non lo ascoltava proprio… ormai aveva sempre quel sorrisetto beffardo dipinto sul volto e lo sguardo era come assente, forse era stanco per il viaggio, ad ogni modo mentre Gregorio continuava a parlare cercando di far valere le sue ragioni, Marco già si era diretto verso la doccia continuando a fischiettare la canzoncina di quel celeberrimo film di guerra.
Gregorio, in preda al panico, decise allora innanzitutto di raccontare l’accaduto agli altri 4 ma avevano i telefonini spenti.
Chiese di loro alla reception e gli fu riferito che due di loro stavano dormendo da almeno due ore e che gli altri due erano fuori, in giro.
Gregorio, senza avvisare Marco, gli prese le chiavi della macchina ed uscì fuori a cercarli, non potevano essere lontani, probabilmente li avrebbe trovati giù in paese al pub, l’unico posto aperto a quell’ora.


LA MATTANZA
Marco, sotto la doccia, si sentiva bene come non mai, ormai sapeva benissimo cosa doveva fare: doveva rispettare il patto.
Li voglio scannare come maiali quei 4 balordi… anzi no due, ne ammazzerò solo due… 2 a testa 2 a testa!
Questo pensava Marco sotto la doccia in preda ad un’euforia incontrollabile.
Una volta fuori si asciugò alla svelta, scese al primo piano e passando dall’uscita di emergenza si introdusse furtivamente nelle cucine dell’albergo dove trafugò un grosso coltellaccio e due guanti scamosciati, di quelli che si utilizzano per gettare i sacchi dei rifiuti.
Tornò su e telefonò alla stanza 213 dove c’erano 2 dei 4 che stavano dormendo.
“Aprite! Sto venendo da voi… fate presto Gregorio è stato arrestato!” disse Marco.
Non diede loro neanche il tempo di replicare, si precipitò fuori immediatamente impugnando il grosso coltello da cucina.
Il ghigno sul suo volto era ora un sorriso largo, sardonico, gli occhi di fuori, Marco era pronto a portare a termine la sua mattanza.
Il ragazzo aprì la porta che era accanto a quella di Marco e Gregorio e ricevette immediatamente una coltellata in pieno petto.
La lama affondò per almeno 20 cm, tanta era la forza impressa.
Il ragazzo si accasciò al suolo gorgogliando inconsulte cacofonie mentre, blando ed esterrefatto, si dimenava tra la pozza di sangue che immediatamente si era formata ai suoi piedi.
Marco gli aveva spaccato il cuore con un solo colpo, il sangue era ovunque.
Marco estrasse la lama dal cuore e si diresse verso l’altro ragazzo con una furia disumana.
L’altro era riuscito a scendere dal letto, d’istinto rovesciò la lampada e la frappose tra sé e Marco ma Marco la scansò via con rapidità fulminea.
Il ragazzo balzò sul letto dell’altro e cercò di guadagnare la porta del bagno per chiudersi dentro ma non fece in tempo perché Marco entrò nel bagno con lui.
Ci fu una colluttazione ma Marco era come un cane idrofobo, aveva una forza ed una rapidità tale che il povero ragazzo non ebbe scampo.
Venne centrato dal coltellaccio proprio in mezzo alle scapole e Marco si accanì, il ragazzo aveva tentato una reazione.
Si accanì come una bestia e diede tante, ma tante coltellate al ragazzo, lo colpì ripetutamente sulla schiena, sulle braccia, sul volto, sulle gambe, ovunque.
La scena era raccapricciante; il primo ragazzo era rannicchiato in una pozza di sangue in posizione fetale e con le mani sul cuore o meglio, su quel che ne restava.
Il secondo era semi seduto sul bordo della vasca con intorno il telo per coprire gli schizzi d’acqua pieno di tagli e di sangue e di frattaglie sparpagliate sul linoleum.
Sangue ovunque; sulle pareti del bagno, sul soffitto, sulla vasca, sullo specchio, sul pavimento.
Non era più bagno, era una macelleria ma non era mobile e non era mezzanotte, erano le 4 del mattino.
Marco uscì dal bagno si sedette sul letto di uno dei due e si tagliò la gola e morì.
Il coltello cadde per terra.
Marco si accasciò da un lato: il ghigno c’era ancora.

L’INCIDENTE
Gregorio uscì dal parcheggio dell’hotel ed imboccò la stradina che portava giù in paese.
Dopo la curva c’era un rettilineo e Gregorio accostò per provare a richiamare i due sul telefonino, magari erano nel pub e non avevano campo, magari erano usciti e poteva finalmente comunicare con loro.
Non poteva sapere, Gregorio, che i due fossero più vicini di quanto immaginasse.
I due erano ubriachi fradici; provenivano dal pub ed insieme con gli altri turisti e gli abitanti del luogo si erano scolati tanta di quella grappa da non reggersi in piedi.
Erano a piedi e si trovavano appena sopra la strada, avevano imboccato una scorciatoia, un sentiero che passava per il bosco e che era sì meno agevole da percorrere ma molto più breve della strada asfaltata che avevano percorso all’andata.
I due, ancora in preda all’euforia e caracollanti, decisero di fare una gara, una corsa lungo il sentiero.
Il sentiero sbucava sulla strada principale e si trovava ad un metro circa dal livello dell’asfalto.
I due erano appaiati nella corsa e ridevano e si spintonavano e stavano giungendo alla meta praticamente insieme.
Gregorio, in preda allo sconforto e ad una rabbia incontrollabile, innestò la marcia e partì a razzo lungo il rettilineo per scendere in paese.
Stirò la prima marcia, poi la seconda.
I due erano giunti sul traguardo, la fine del sentiero di montagna, la fine delle loro vite, 2 a testa.
I due saltarono insieme; davvero non sarebbe stato facile stabilire chi avesse vinto la gara.
Saltarono sulla strada asfaltata nel preciso istante in cui sopravveniva, a tutta velocità, la Y10 del ’92.
L’impatto fu terrificante.
I loro colpi rimbalzarono sul parabrezza e volarono in alto investiti dalla macchina in velocità.
Sembravano due manichini, due pupazzi di pezza gettati dalla finestra a capodanno.
Morti sul colpo, il cranio sfasciato, la spina dorsale spezzata, due a testa.

EPILOGO
Da un quotidiano locale:
La nostra comunità è stata profondamente turbata dagli abominevoli omicidi della notte scorsa.
Mai, a memoria d’uomo, il nostro paesino era stato teatro di un fatto di sangue così feroce e malsano.
Gregorio Ravelli, 29 anni, di Roma, incensurato, ha barbaramente ucciso i suoi 5 amici coi quali era in vacanza per la settimana bianca.
Tre di loro sono stati trucidati e sgozzati, con un grosso coltello da macellaio, trafugato nella cucina dell’albergo e rinvenuto sul pavimento della stanza 213; gli altri due sono stati investiti dal Ravelli con l’automobile in velocità e senza alcuna traccia di frenata.
Il Ravelli è in stato di choc, rinchiuso in una cella, guardato a vista.
Non ha parlato, non ha spiegato i motivi della carneficina, si è chiuso in un totale mutismo, è praticamente catatonico.
L’unica frase che ripete sporadicamente è: 2 a testa 2 a testa, il patto va rispettato.
Una curiosità: nel serbatoio della Y10 non c’era neanche una goccia di benzina.

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editoriale di sotomayor

Quando ero bambino, mio padre lavorava in fabbrica a una macchina a controllo numerico. Ricordo che qualche volta succedeva, in occasione dei periodi natalizi, che i genitori potevano portare la propria famiglia e i propri figli in fabbrica: questa organizzava degli eventi attraverso il cral aziendale in cui era data la possibilità di accedere a degli sconti per chi volesse comprare determinati regali per i figli in occasione delle festività. Organizzavano allora una specie di festa e un allestimento. Ricordo questi grandi capannoni addobbati per l'occasione: nel complesso, ripensandoci, mi sembra tutto molto 'povero'. Era sicuramente tutto molto grigio e ricordo sempre che faceva freddo, però allora bastava la magia dei giocattoli a dare quel colore che significava qualche cosa di speciale.

Devo dire che mio padre non amava particolarmente quelle iniziative. Ricordo che organizzavano, sempre secondo le stesse modalità, ad esempio anche la colonia estiva e mio padre non volle mai mandare me e mio fratello più piccolo, il terzo invece non era ancora nato in quegli anni, perché diceva che non avrebbe mai e poi mai lasciato i suoi figli in ostaggio nelle mani del padrone.

Comunque io queste visite me le ricordo bene ancora oggi, ma ricordo che quello che mi interessava veramente era vedere dove lavorava papà.

Io volevo essere come mio padre, il mio unico grande sogno, l'unica cosa che ho sempre voluto essere è stata diventare un operaio come mio padre prima di me. Magari potere un giorno lavorare alla macchina accanto alla sua.

Era la fine degli anni ottanta. Vedevo poco mio padre durante gli anni dell'infanzia. Un po' perché faceva i turni in fabbrica; un po' perché il sindacato, era nel comitato centrale, la politica... tutte queste cose lo tenevano spesso lontano da casa.

Praticamente posso dire che io e mio fratello siamo stati cresciuti solo da mia madre e per questa ragione, come io volevo essere come lui, ricordo che dormivo con martello, pinze, cacciavite... sotto il cuscino, allo stesso modo mio fratello (due anni più piccolo di me) aveva per lui una specie di venerazione. Tanto che mia madre a lungo si domandava se per caso sbagliasse qualcosa nel comportamento nei suoi confronti. Ma la verità era semplicemente che, poiché lui non c'era mai, quando c'era, la cosa acquistava un significato speciale per noi e per mio fratello, più piccolo di me, la cosa lo era ancora di più. Del resto sul piano affettivo (come sotto ogni altro aspetto) non ci ha mai fatto mancare nulla.

Poi a un certo punto tutte le cose sono cambiate.

Mio padre ha chiuso con la fabbrica. Mio padre ha chiuso per sua decisione con il sindacato e con la politica, del resto non era più un operaio metalmeccanico e democrazia proletaria (cui era stato tra i fondatori, dopo l'esperienza in avanguardia operaia) concludeva la sua esperienza politica confluendo in buona parte in rifondazione comunista. Cui non volle mai aderire. Del resto aveva già avuto Bertinotti come 'capo' al sindacato e averci a che fare in quel contesto gli era bastato. Nonostante il 'compagno' Fausto fosse per lo più assente e poco interessato a adempiere ai suoi impegni di rappresentante capo del sindacato dei metalmeccanici e impegnato a diffondere il verbo da qualche altra parte non meglio precisata, il fatto che mio padre non fosse allineato al pensiero massimalista del pci gli comportò nel tempo un certo ostracismo, se non - molto peggio - degenerazioni e minacce degne di una certa altra parte politica della direzione opposta e che, va detto, senza denigrare un pezzo importante della storia di questo paese, non mancarono tuttavia nel corso degli anni della storia del partito comunista italiano.

Questo succedeva più o meno in coincidenza con la caduta del muro di Berlino: come se quel determinato momento storico avesse segnato il crollo di tutte le mie certezze in una maniera che ancora oggi a distanza di tanti anni, mi appare irreversibile.

È come se quel muro in un certo senso mi sia crollato addosso.

Appena mi sono diplomato, oltre dieci anni dopo, ho fatto subito domanda per entrare in Alenia Aeronautica, ma non mi hanno mai risposto.

Lo sapevo che sarebbe andata così, figuriamoci, ma provare non mi costava nulla.

Nel frattempo comunque mio padre aveva avviato una sua attività e - come naturale - avevo cominciato a lavorare con lui già prima del conseguimento della maggiore età. Del resto aveva comunque bisogno di una mano e sembrava naturale che fossi io ad aiutarlo. Ma la cosa non mi è mai dispiaciuta: mi sono sempre offerto volontario.

Sono passati quindici-venti anni e non ho mai smesso di fare quel lavoro, una attività che padroneggio con l'esperienza di un veterano e molto meglio di colleghi più attempati e con anni e anni di esperienza alle spalle (che poi a questo punto non sono più tanti dei miei), e l'unica ragione per cui credo di avere cominciato e di avere continuato a farlo sia stata in parte la realizzazione della stessa che quando ero bambino mi faceva sognare di lavorare a una di quelle gigantesche macchine.

Infatti sono riuscito, se vogliamo, a lavorare con mio padre (ma vi posso garantire che nonostante l'ottimo rapporto, un rapporto molto intenso e speciale, questo non sia stato facile a causa del suo carattere diciamo particolare). Ma mi manca qualcosa.

La fabbrica.

Qualche anno fa cercai curiosamente di riempire questo grande vuoto proprio a Berlino, dove cercai l'amore disperatamente rincorrendo fin lì la donna della mia vita. Ma io non ero l'uomo della sua vita e così, ironia della sorte, mi ricordai d'un tratto, proprio lì, davanti ai resti del muro, che io stavo ancora lì: sotto quel cumulo di macerie.

In un certo senso sento di non essere riuscito a combinare niente nella mia vita. Tutto quello che ho fatto è stato seguire la scia di mio padre. Ma mi manca qualche cosa e negli anni ho cominciato a avere dei problemi di salute e quando anche la sua è peggiorata, per motivi diciamo fisiologici dato il raggiungimento di una certa età, penso di avere definitivamente realizzato che quel sogno così tanto lontano sia rimasto incompiuto e che forse dentro c'era qualche cosa di più che potere fare lo stesso lavoro di mio padre e essere come lui.

Dentro quel sogno c'era quella voglia e quel bisogno di fare parte di qualche cosa di grande e che se da una parte mi avesse avvicinato a mio padre, come pure volevo del resto, dall'altra mi avrebbe anche dato una definizione e un ruolo riconoscibile all'interno di un gruppo e di una comunità di persone. Avrei fatto parte di qualche cosa.

Volevo lavorare in fabbrica perché così non sarei mai stato solo.

Ogni giorno che passa, adesso, invece, sento che sono sempre più solo e che questo grande buco che ho dentro non riesco a riempirlo e nonostante io ci abbia provato con metodi che definirei 'sani', come cercare di coltivare amicizie o una relazione sentimentale, ve ne ho parlato prima in poche righe, senza esito; che insani. Facendomi del male.

Forse il grande sogno di lavorare in fabbrica, penso qualche volta a Gaber quando diceva che 'Qualcuno era comunista perché si sentiva solo,' ecco, forse anche quello era solo una grande illusione. Ma, sapete, ci sono bambini che sognano di fare qualche cosa di avventuroso come il pilota oppure il pompiere oppure qualche cosa di ancora più difficile come l'astronauta o lo scienziato; altri invece hanno ben chiaro sin dalla più tenera età di voler fare il medico oppure l'avvocato oppure l'architetto...

Io volevo solo fare l'operaio e costruire gli aeroplani: questo era l'unico modo con il quale mi sarei potuto staccare dalla terra e avrei potuto spiccare il volo. Solo che invece sono rimasto con i piedi attaccati al suolo e ogni volta, alzo gli occhi al cielo e vedo gli aeroplani volare e mi sento vuoto e come se la mia vita non avesse alcun senso.

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editoriale di sotomayor

Credo che ogni tipo di relazione dovrebbe necessariamente configurarsi, per essere definita come tale, come un vero e proprio interscambio tra due o nel caso più soggetti.

Non esiste del resto 'relazione' che possa avere carattere unilaterale, perché questo negherebbe il significato stesso della parola.

È richiesto conseguentemente che affinché una relazione sia definita come tale, che tutte le parti coinvolte svolgano un ruolo attivo, confrontandosi e persino scontrandosi tra di loro, ma comunque in una maniera che sia proficua e volta a consolidare, anzi rinnovare e innovare di volta in volta questo legame secondo un principio che potremmo considerare finalizzato ad 'accrescere' quello che ne è il contenuto.

Vanno tuttavia fatte determinate precisazioni.

Intanto viene immediato pensare alla relazione, così come descritta, come se fosse una specie di 'do ut des'.

Chiaramente non è esattamente così che funziona oppure che dovrebbe funzionare. Anzi non è affatto così: non stiamo chiaramente parlando di operazioni di tipo commerciale.

Senza considerare una componente fondamentale: che amare significa tanto saper dare quanto saper ricevere. Se tu sai fare o comunque fai solo una delle due cose, sei in qualche maniera incompleto. Sei irrisolto come il più difficile dei Bartezzaghi.

Non a caso invece che scambio ho parlato di 'relazione', un termine che come tale è rivolto più a principi come collaborazione e condivisione, che significa che avere una relazione con qualcuno significhi condividere, ma questo non sul piano materiale in un senso che potrebbe fare pensare a teorie collettiviste oppure a una visione dei rapporti umani di carattere francescano.

Ci distacchiamo infatti comunque da qualsiasi piano ideale e puramente teorico.

Penso infatti a sì, qualche cosa di materiale, ma che riguardi condividere il proprio pensiero e i propri sentimenti ma anche le azioni: fare assieme le cose. Prendere assieme determinate decisioni. Qualche volta, anzi sempre, basta o meglio basterebbe semplicemente esserci.

Di che cosa parliamo del resto, quando parliamo di amore, se non di quello che ho appena rappresentato.

Forse piacerà poco ai poeti, forse non è il massimo del romanticismo, forse così tutto appare svuotato di principi di natura morale, etica, ideologica, ma l'amore è così: o ci sei, oppure no.

Non c'è amore in una relazione dove un soggetto è innamorato e quell'altro non lo è: questa situazione, che si verifica credo in maniera ricorrente, purtroppo, per quanto il mio pensiero possa ferire la parte 'innamorata', è in verità priva di amore da tutte le parti in causa e caratterizzata solo da uno scatenarsi di energie di carattere negativo e una successiva insoddisfazione e autolesionismo di cui - attenzione - molto spesso abbiamo comunque evidentemente bisogno.

Perché questo sentimento per quanto negativo, è qualche cosa di forte e che funziona in maniera adrenalinica esattamente come l'amore.

Probabilmente è rabbia, molto più probabilmente è vero e proprio odio verso se stessi e che mascheriamo sotto forma di amore.

Tutto questo potrà invero apparire spaventoso, ripensando a casi in cui ci siamo trovati in questa situazione potremmo sentirci delle persone terribili, ma tutto questo è invero molto umano e molte volte abbiamo evidentemente bisogno nella nostra solitudine di trovare una spinta emozionale e il nostro stato di alterazione ci impedisce evidentemente di percepire come stiano realmente le cose.

Per quanto la cosa vi apparirà disperata, nichilista e tragica, non c'è amore quando vi dichiarate disposti a scalare o anzi magari scalate persino le pareti de l'Everest per dimostrare qualche cosa alla donna che credete di amare. Non c'è amore in nessun atto eroico che possiate compiere e ogni sacrificio sarà assolutamente inutile. Tutte queste cose, al limite, potranno servire per provare qualche cosa a voi stessi e in molti casi forse potreste comunque trarne gratificazione. Ma tutto questo oltre che essere autoreferenziale a un certo punto diventa pericoloso perché questo accumulo di 'energie' a un certo punto ha bisogno di una soluzione, altrimenti rischierete di implodere oppure di esplodere e nessuna delle due prospettive è in nessun modo allettante.

Dove basterebbe una passeggiata, come diceva Benigni? 'Facciamo due passi? No! Perché...', è chiaro che non serva immergersi fino a toccare il fondo della fossa delle Maryanne; dove basta una carezza, non serve affrontare propria sponte un processo a Norimberga... e compiere questo atti 'eroici', che poi hanno tutti una qualche componente ascetica, è un gioco al massacro dove l'unico partecipante sei tu e solo tu e non ci sono spettatori interessati.

Nelle relazioni tra le persone, quando parliamo di 'amore' e con questo voglio dire ogni tipo di amore, puoi fare quello che ti pare, superare le barriere dell'impossibile, ma se lo fai da solo non significa niente: al limite puoi essere Superman, ma sarai in questo caso sempre e solo l'ultimo sopravvissuto di un pianeta distante anni luce dalla Terra e come tale, destinato alla solitudine nel tuo palazzo di ghiaccio.

Non c'è amore per gli 'eroi': al massimo una stelletta di cartone da attaccare sul vestito buono da sfoggiare alla domenica quando da soli girerete per le strade della vostra città, sperando che tutti si ricordino di 'quella volta che', ma in fondo non gliene frega niente a nessuno.

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editoriale di MikiNigagi

«Mi sono rotto il cazzo della critica musicale. Non siete Lester Bangs, non siete Carlo Emilio Gadda. Si fa fatica a capire cosa scrivete, bontà di Dio!».

Ho a lungo meditato su queste parole dei Lo Stato Sociale. Ma invano, avendo fin da principio raggiunto il grado di consapevolezza sufficiente ad agire, sentire, in senso contrario a qualsiasi indicazione, direttiva stilistica e comportamentale, ipotesi ideologica, propugnata dai Lo Stato Sociale, e dalla maggioranza già di per sé affatto silenziosa della quale si sono fatti tra i più efficaci, grottescamente iconici, innecessari portavoce.
Se questo poi potrebbe leggersi come si assiste agli spari sulla Croce Rossa, basterà far notare come in certi casi sia la Croce Rossa, dalle feritoie dei suoi cingolati pesanti, a spararci raffiche addosso. Mentre noi per difenderci abbiamo solo queste quattro tavole di compensato, e la merda per tenerle su. E siamo anche mezzo nudi, e tremiamo di freddo e terrore.

Bisognerà dunque emulare le gesta descrittive barocche di Carlo Emilio Gadda: fare che siano gli oggetti disposti, le musiche, a suggerire le forme espressive da adottare. Le chiavi di ascolto, diverse come son diverse le musiche, per tentare di comprederne la natura fino all'infinitesima componente, il più breve intervallo, ogni singolo colpo di grancassa. In una nevrosi di subordinate rigonfie di lessico, spregiudicate neoformazioni come spregiudicata è la linea vocale blinkeggiastica di questa The Future che proprio adesso la mia Trust Dixxxo sta diffondendo, seconda traccia del centottantaduplice disco dei The World Is A Beautiful Place & I Am No Longer Afraid Of Ammettere che ho imparato a suonare bene, a fare gli arpeggi che nel periodo del post rock andavano strabene, ma da ragazzetto mi piacevano gli AFI, e adesso che la cosa del post rock è andata, e va di moda il passato brutto, guarda cosa ti combino. In un nevrotico gliommero la cui dissoluzione sia possibile solo per identificazione della forza che è forza vitale, motrice e matrice dell'intero universo, in ogni musica e in ogni tappo di sughero, borsa da donna, calzino, abat-jour; eppure imperscrutabile, indefinibile, irriducibile a parola.

Armarsi di sciarpe di seta, e pipe, ascoltare Mozart, come il padre di Kyle nella sua fase di ispirazione letteraria da recensore per Yelp. South Park.

Appicciare incensi alla naftalina, alla cenere macerata dalla pioggia, alla brezza di alghe decomposte sul lungomare di Alghero, al fegato di suino, e poi stilare un piccolo vocabolario di lemmi assonanti; quindi impiegarlo per restituire, per mimare, anche al lettore più distratto, la voce di King Krule nel suo nuovo The OOZ.

O piuttosto fare come Lester Bangs, riprodurre, fin dal gesto meccanico di battitura sulla tastiera, i ritmi febbrili degli anni settanta, i virtuosismi sui toni alti dei cantanti dai capelli lunghi; battere sui tasti con la stessa violenza di un allegro Bonzo ubriaco, e leggere sullo schermo che quelle frasi lapidarie, secche ma rimbombanti bombastica, vi aderiscono perfettamente. Farne professione, guadagnare, esserci sotto per poi esserci dentro, per raccontare tutto e raccontarsi sempre al meglio, in una anti-agiografia che tracci la mappa della perdizione italiana musicale e perimusicale. Sempre col cinismo di chi Mannarino lo conosce, ci ha bevuto dalla stessa bottiglia, e ti dice che guarda: un coglione così... e poi lo sa, perché la musica viene fuori come viene fuori, e con esattezza.

Fare tutto per esprimersi, fare il minimo per farsi capire: si scrive di musica per un'esigenza conoscitiva che richiede l'impiego di sinestesie anche le più azzardate, calchi dal francese, metafore osate e sperimentalismi formali e strutturali, e senza mai la presunzione di afferrare il punto; figurarsi di spiegarlo. Tutto il resto è esercizio sterile, come guardare la musica al microscopio con l'occhio chiuso come Frank Drebin, e catalogare senza mai chiedersi cui prodest: enciclopismo.
Bisogna scrivere troppo o troppo poco, e sempre con criterio: la lunghezza di un testo ne è parte integrante, carattere paratestuale; comunica quindi a sua volta, o perlomeno contribuisce a comunicare. E scrivere con alterigia, manifestando una competenza che dev'essere oltre la soglia dell'avrei-potuto-scriverlo-anch'io. Una competenza che dev'essere competenza reale, con solidi contenuti e elementi anche ideologici. Rivolgendosi a iniziati, sì, ma con il senso di inclusione per chi iniziato non è, ma ha una connessione a internet e possibilità di controllare i riferimenti, curiosità di capire quel che sulle prime gli sembra uno sfoggio insensato di proprietà di linguaggio.

Può sembrare che non ne valga la pena. Ma anche solo perché i Lo Stato Sociale dicono il contrario, capisci che.

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editoriale di ThorsProvoni

Scena uno.

Qualche tempo fa una giovane donna che sta facendo la spesa in un centro commerciale d’un tratto lascia il carrello e, iniziando ad urlare di aver dimenticato il proprio figlio in auto sotto il sole, si precipita verso l’uscita. Raggiunge l’auto, spalanca lo sportello e afferra isterica un bambino da un seggiolino.

Nel frattempo arriva un uomo che si qualifica come medico e vuole vedere il bambino per controllare che stia bene.

E qui si scopre l’inghippo: non è un bambino ma un Reborn Dolls.

Scena due.

Cosa c’è di più normale di una mamma che spinge delicatamente un passeggino con dentro un bambino paffutello, che ogni tanto si ferma a controllare che tutto sia a posto, che magari gli aggiustata il ciuccio che sta per cadere e gli sistema meglio la cuffietta?

Siete sicuri che le cose stiano così?

Attenzione! Potreste essere davanti ad un Reborn Dolls.

Scena tre.

Esistono done che mettono avvisi in rete alla ricerca di una tata per il proprio figlio appena nato; ma quando le ragazze si presentano per il colloquio il posto è già stato appena preso da qualcun’altra.

Anche in questo caso si tratta sicuramente di un Reborn Dolls.

Come: cos’è un Reborn Dolls? Un bambino rinato!

Un pupazzo di silicone, insomma.

Ma a cui puoi cambiare il pannolino perché si sporca, a cui puoi dare da mangiare come ad un bambino vero. Che, se hai i soldi, ti puoi far costruire come vuoi tu: occhi, capelli, sembianze…

Ne avevo sentito parlare in radio qualche settimana fa, ma non pensavo che questo fenomeno fosse così esteso. Anche perché questi ‘cosi’ costano dai 500 ai 20000 euro.

Esistono addirittura, anche in Italia, gruppi segreti su Facebook in cui si incontrano le ‘mamme’ e si raccontano le loro esperienze, chiedono consigli, mostrano orgogliose i loro ‘pargoli’.

Questa è la storia che, se volete, potete approfondire in rete, anche per i suoi risvolti spassosi se non proprio comici.

Ma la mia domanda è: chi sono queste persone? Queste ‘mamme’ che sentono il bisogno di avere un ‘bambino’ di silicone? Sono persone malate? O semplicemente capaci di giocare con ogni cosa? Tutto ciò che esiste può essere oggetto ludico?

Ricordate qualche anno fa il Tamagotchi? C’è secondo voi un collegamento a livello sociologico e psicologico con quel gioco giapponese?

Io sinceramente penso che si tratti di persone malate, non in grado di affrontare la realtà; e anche se vogliamo parlare di un ‘gioco’, dobbiamo renderci conto che queste simulano una realtà in modo talmente… realistico che siamo al limite della truffa emozionale.

Ora chiedo a voi un parere su tutto questo.

Siate schietti come sempre.

(Ah, vi ho risparmiato quella della tipa che ha organizzato un funerale per il suo ‘pargoletto’ che si era rotto… )

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editoriale di Pinhead

Di arte – pittura, scultura et similia – so poco o nulla ed è la mia abissale ignoranza che, ogni volta che entro in un museo, mi impone di bloccarmi per interminabili momenti, la bocca a penzoloni, davanti a tante opere.

Come quando mi trascinarono a forza al Louvre a Parigi, durante la più tradizionale delle gite scolastiche, sotto minaccia di bando da ogni scuola della Repubblica. Ecco, allora mi persi per ore al cospetto de «La zattera della Medusa» di tale Théodore Géricault, perché quella è la copertina, seppur riadattata alla bisogna, di «Rum, Sodomy and the Lash» dei Pogues; e vuoi mettere lo stupore di ritrovarmela davanti al Louvre a Parigi, in tutta la sua imponenza?

L’arte moderna, l’avanguardia, invece, non la capisco proprio e neppure l’apprezzo; meno che mai i critici di arte moderna, simbolo della più indefinibile vacuità che abbia contemplato. Se qualcuno, si è mai imbattuto nel MoNA – acronimo del Museo dell’Arte che Non Esiste, a New York – probabile che intuisca i miei sentimenti al riguardo.

Premessa per arrivare al punto che, in questi giorni, ho avuto la fortuna di trascorrere un fine settimana a Bologna e, da bravo turista fai-da-te oltre che last-minute, ho trovato su Google un sommario elenco delle dieci cose da vedere ad ogni costo.

Tra queste, la Pinacoteca Nazionale, girata in lungo e in largo per ore senza grande costrutto ma bellissima, ed il Museo di Arte Moderna, sorpassato con indifferenza, causa pregiudizio.

Però, del M.A.M.BO., ho avvertito la curiosità – termine inadeguato, in tale contesto, ma non me ne viene un altro – di visitare la sezione distaccata dedicata alla memoria della strage di Ustica: è il capannone nel quale giacciono i resti, per quanto è stato possibile ricomporre, dell’areo abbattuto nel cielo di Ustica durante il volo da Bologna a Palermo del 27 giugno 1980, 81 morti, nessun superstite.

Attorno ai resti, un’installazione permanente, opera dell’artista francese Christian Boltanski: 81 luci intermittenti al di sopra dell’areo e dei parallelepipedi neri all’intorno, 81 specchi neri lungo la circostante passerella per i visitatori, altoparlanti da cui si diffondono i presumibili pensieri che affollavano la testa dei passeggeri negli attimi precedenti la fine.

Iniziativa lodevole e meritoria, assolutamente.

Però non la capisco, sicuramente per il pregiudizio che nutro verso ogni forma di arte moderna: arte moderna o meno che sia, la sensazione che mi ha sfiorato è stata quella del dramma trasformato in melodramma.

Perché sono rimasto lì dentro per ore, intontito a fissare quei resti a pochi metri, e l’unica cosa che mi si è fissata in testa quando sono uscito è che ci sono dei pezzi del relitto talmente piccoli che stanno nel palmo di una mano e che non riesco nemmeno ad immaginare come vada che un aereo finisca in talmente tanti pezzi che li potresti chiudere nel pugno.

Come se il tentativo di ricostruire quell’areo fosse la composizione di un puzzle.

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editoriale di sotomayor

Vi capita mai di ascoltare per caso dei vecchi dischi che quando eravate ragazzi per voi significavano tutto e di trovarli adesso invece sgradevoli, privi di contenuti. Praticamente inutili.

A me succede.

Non mi succede spesso perché be' seleziono sempre personalmente quello che ascolto: non mi capita molto spesso di stare in giro ultimamente e se sono in ufficio oppure a casa, decido io che cosa voglio ascoltare.

Per lo più cambio spesso: mi piace ascoltare continuamente cose nuove.

Ma chiaramente come tutti ho le mie preferenze, dischi che ascolto periodicamente e dischi nuovi che magari mi prendono in modo particolare e ascolto per giorni e giorni. Ma in generale mi piace cambiare, anche perché penso che ci sono così tante cose che mi piace provare ad ascoltarle tutte.

Ho avuto una discussione nel merito con mio fratello, anche lui un discreto appassionato di musica (passione che gli ho trasmesso io me medesimo) e tecnico del suono: secondo lui ogni disco (oddio proprio tutti no) meriterebbe di essere ascoltato molte volte per poterne cogliere ogni aspetto.

Va detto che lui è un perfezionista: a differenza di me, che sono evidentemente una testa di cazzo, i miei due fratelli, sono tutti e due più piccoli di me, sono due ragazzi veramente molto precisi e devo dire anche molto in gamba. Secondo alcuni dovrei essere geloso, ma non è così, sono contento: se posso avere contribuito in questo anche in minima parte, vuol dire che forse ho fatto qualche cosa di buono.

Però io penso che ascoltare molti dischi oppure ascoltare molte volte lo stesso disco in fondo sia la stessa cosa: c'è comunque un percorso di ricerca di qualche cosa e questo in fondo pure a livello tecnico e di sfumature nei suoni. Formi comunque una tua cultura musicale e un tuo 'orecchio' anche se passi da un disco all'altro senza soffermarti troppo a lungo su un lavoro in una maniera quasi enciclopedica.

Comunque la domanda è: come vi relazionate con il vostro passato di ascoltatori?

Chiariamoci: io non sto parlando neppure di cose che potrebbero essere deplorevoli come avere ascoltato Ambra Angiolini oppure non lo so Jovanotti. Sto parlando di ascolti degli anni delle superiori come possono essere stati (nel mio caso): i Radiohead, i Cure, i Pearl Jam...

I Radiohead in particolare sono stati a lungo la mia band preferita. Per me significavano veramente molto e ricordo che la prima trasferta on the road importante per vedere un concerto fuori Napoli l'ho fatta proprio per loro: ho considerato quella giornata per molto tempo come la giornata più bella della mia vita.

Com'è possibile che oggi, ascoltandoli, io non provi proprio nulla? Praticamente niente. Se non addirittura noia. Indifferenza totale.

Ho pensato che sia una questione anagrafica e per questo ho variamente definito i Radiohead come una band 'adolescenziale': effettivamente - ma questo è solo un mio pensiero e come tale discutibile - sono una band secondo me diciamo 'colta', ma i cui contenuti sono per lo più malinconici e adatti a un certo mood che può essere tipico diciamo di un ragazzo contro e molto solo e io ero esattamente così.

Forse sono ancora oggi così in qualche modo, solo che non sono più un ragazzo, ma sono invecchiato e oggi sono un uomo solo e invece che essere contro tutto e tutti, quando sei solo, finisci con essere contro te stesso e penso che comunque essere così non sia qualche cosa di positivo. Vedo quindi forse qualche contenuto negativo all'interno delle canzoni dei Radiohead? Non credo. Mi sembrerebbe quasi di entrare nel merito di una di quelle polemiche di qualche anno fa sulla musica di Marylin Manson oppure di Eminem e che dicevano che portava i ragazzi sulla cattiva strada. Cazzate.

Semplicemente quelle canzoni non mi dicono più niente: non riesco proprio a trovarci dentro nessun significato e non mi commuovono facendomi pensare a quando ero ragazzo, forse perché se mi guardo indietro, non trovo nessuna ragione valida per commuovermi ripensando a quegli anni. Sono stati anni del cazzo e basta. Mi va bene che sono passati. Non provo nessuna nostalgia.

Così considero questo mio cambiamento come una mia crescita personale e che non è solo una crescita come ascoltatore, ma proprio come individuo. Significa tuttavia che questi gruppi allora siano effettivamente adolescenziali come sostenevo poc'anzi? Significa forse che sono stati per me adolescenziali? La risposta è difficile da dare in assoluto. Perché per quanto mi riguarda sono tentato da dire che sì, che si tratta di musica da ragazzini, ma ci sono un sacco di persone che hanno la mia età o che sono anche più grandi di me che li ascoltano e voglio dire, allora questa mia dichiarazione mi sembrerebbe in qualche maniera presuntuosa.

Soprattutto mi domando anche: ho forse rinnegato me stesso? Sto forse rinnegando me stesso in una maniera strumentale per qualche ragione alla mia attuale situazione mentale in questa precisa fase della mia esistenza?

Forse semplicemente ciascuno ha una sua strada da percorrere e lungo questo cammino ogni cosa assume un significato diverso, come quando guardiamo un quadro oppure leggiamo una poesia e ognuno dà una interpretrazione diversa. Io ho interpretrato l'ascolto di determinati dischi e la mia vita in un determinato modo e ho scelto di non restare sepolto sotto un cumulo di quelli che evidentemente considero solo come dei vecchi dischi del passato. Cammino su dei cd fatti a pezzi come l'uomo sui pezzi di vetro di Francesco De Gregori. Voi fate come vi pare.

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editoriale di luludia

1)

C'era una volta una bambina dai capelli rossi che era leggera come una nuvola e aveva un bellissimo sorriso perché ogni mattina si lavava i denti con tre dentifrici diversi. Un giorno decise di comprare qualcosa e entrò in un negozietto. Prima di farlo mise tre sassolini nelle tasche per essere un po' meno leggera, altrimenti il negoziante non avrebbe potuto vederla.

“Vorrei un pochettino di ragù per il mio micio occhi blu.” Infatti fuori c'era un gatto che aspettava, ma non aveva gli occhi blu. Che quelli servono solo per la rima. In compenso era rosso come i capelli della bambina e disegnava con la coda un punto interrogativo nell'aria.

2)

Fuori dal negozio la bambina si tolse i tre sassolini dalle tasche. Era di nuovo leggera, e così nessuno poteva vederla. A parte Giovanni.

“Mamma guarda quella bambina col gatto!!” “Dove Giovanni?” “Sono li mamma, non li vedi?” “No” “Ma come, guarda!! Il vestito della bambina sembra una nuvola e il gatto sta mangiando il ragù ” “Giovanni, per favore!!”

Si perché nessuno vedeva nemmeno il ragù. Tutte le cose che la bambina toccava diventavano invisibili.

3)

Dopo essersi accorta di Giovanni e avergli sorriso, la bambina si trasformò in una coloratissima farfalla e si allontanò con il gatto che le saltellava dietro. La trasformazione andò così: prima rimase solo la nuvola che fece pof come una bollicina e poi venne fuori la farfalla.

“Insomma Giovanni vuoi muoverti!!” “Mamma, ho appena visto una bambina trasformarsi in una farfalla!!” “Si, si, piacerebbe anche a me trasformarmi in una farfalla, così non dovrei fare la spesa e correre a casa per cucinare per te e per tuo padre.” “Ma, mamma, io l'ho vista davvero” “Va bene Giovanni, ma adesso andiamo.”

4)

Ma era successa anche un'altra cosa: i tre sassolini che la bambina aveva buttato adesso erano colorati e avevano gli stessi colori della farfalla che era volata via. Giovanni li raccolse senza farsi vedere e se li mise in tasca.

Arrivato a casa Giovanni cominciò a giocare. Lui era un pirata e i sassolini un tesoro che aveva trovato e che adesso era al sicuro nelle sue tasche. Al sicuro? Non proprio, che adesso qualcuno lo stava inseguendo. Bisognava scappare, correre. E correva, correva. Ma chi lo inseguiva? Sarebbe stato bello se a farlo fosse stata quella bambina.

5)

“Basta correre, stai li sul divano e non muoverti”. E Giovanni chiuse gli occhi e sentì una specie di ronzio nella testa che forse era la rabbia di essere in castigo. Poi mise le mani in tasca e toccò i tre sassolini. Immediatamente il ronzio si trasformò in un altro suono, un ron ron elettrico e dolce. Poi si accorse che quel ron ron non era nella sua testa, ma fuori. Aprì gli occhi. Sul divano con lui c'era il gatto e il ron ron erano le fusa.

Era talmente stupito che non riusciva a dir niente, e di cose da dire ne avrebbe avute parecchie: come aveva fatto il gatto ad entrare? dov'era la bella bambina dai capelli rossi? come si spiegava la trasformazione in farfalla? Ma neanche una parola gli uscì dalla bocca.

6)

Lui e il gatto si guardarono negli occhi e all'improvviso non c'era più la stanza, ma un albero, dove su un ramo se ne stavano tranquilli.“Sono un gatto o un bambino?” si chiese. Dalla cucina si sentiva arrivare un rumore di pentole e così sembrava che anche la mamma fosse sul ramo.

Era passato parecchio tempo quando con la coda dell'occhio vide il gatto che si allontanava insieme alla farfalla. E quando la mamma lo liberò dal castigo, lui non riprese a giocare. E se ne stava li come uno che aveva fatto un bel sogno e non vuole svegliarsi.

7)

Il giorno dopo a scuola fece un disegno dove si vedevano il ramo, il gatto, il bambino. Poi aggiunse la farfalla mettendola al posto del sole. "E la bambina, la bambina dove la metto?" Ci pensò sopra parecchio per poi disegnarla addormentata ai piedi dell'albero.

Mancava solo la mamma e quel rumore di pentole che vuol dire che c'è. Disegnò allora una pentola rossa e la mise tra i fiori del prato quasi fosse un bel fiore anche lei. I sassolini non li disegnò. Che quelli erano un segreto. Il segreto più segreto di tutti.

8)

Quando la maestra gli chiese come mai il bambino assomigliasse un po' al gatto, Giovanni rispose che non lo sapeva proprio bene, ma che essere un gatto gli sarebbe piaciuto. Si sentirono allora le risate degli altri bambini, ma Giovanni non se la prese, anche perché c'era una farfalla colorata che svolazzava fuori dalla finestra.

Al ritorno da scuola ebbe voglia di tornare sul ramo. Cercò allora di rifare le stesse cose del giorno prima: si fece mettere in castigo, toccò i sassolini. Niente. Riprovò un'altra volta e tante altre ancora. “Gatto rosso, perché non arrivi?”

9)

La sera si addormentò un pochino deluso. Mise però i sassolini sotto il cuscino come si fa coi dentini per far arrivare la fata. Fu una buona idea, perché quando si svegliò in piena notte il gatto era tornato e se ne stava ai piedi del letto.

Dapprincipio tutto sembrava normale, poi si rese conto che era buio e che ci vedeva lo stesso. Accompagnato dal gatto fece un giro nel nero della casa e tutto era uguale a sempre, ma anche un pochino diverso, un diverso che non faceva paura. Poi arrivò la farfalla, non più colorata, ma bianca e il gatto la seguì.

10)

E, anche se il gatto era andato via, continuava a vedere nel buio. Ed era bello non accender la luce. Era bello non avere paura. Gli venne persino l'idea di uscire in giardino, ma temeva che il rumore della porta avrebbe potuto svegliare la mamma. Andò allora in cucina dove c'erano i biscotti e la coca cola da bere senz'acqua.

Poi quando ritornò nel letto, alzò il cuscino e vide che i sassolini erano di nuovo cambiati: adesso erano bianchi di un bianco bianchissimo come quello di una farfalla notturna o come dentini che ogni mattina vengono lavati con tre dentifrici diversi.

11)

Al mattino una nuvoletta di polvere colorata si posò sui sassolini.

“Bella bambina, lo so che sei tu a fare tutte queste cose...ma perché non ti fai più vedere? Sai cosa faccio? Adesso senza che la mamma mi veda prendo per te un po' di quei biscotti buonissimi.”

Ne prese tre.

“Tre sassolini e tre biscotti” pensò.

12)

E mentre andava a scuola e pensava “che cosa se ne farà poi di tre biscotti una bambina magica?” toccò di nuovo i sassolini.

“Invece i biscotti mi piacciono molto! Ma dimmi non hai un po di ragù per il mio gatto?” “No”

“Be dammi i biscotti allora!!” E mentre la bambina mangiava, Giovanni non riusciva a spiccicare nemmeno una parola.

“Devi andare a scuola, vero? “Si”

“Bene ti accompagno” Si trasformò in farfalla e per tutto il tragitto gli svolazzò sopra la testa

13)

All'uscita da scuola la farfalla riprese a svolazzargli intorno.

“Adesso però, per favore, torna una bambina.”

Allora si trasformò di nuovo e cominciò a correre.

“Dai prendimi” gli disse.

Giovanni si mise a correre, ma prenderla sembrava impossibile. Allora toccò

i sassolini e cominciò ad andar velocissimo, ma quando l'aveva raggiunta e stava per toccarla, lei si trasformò di nuovo in farfalla.

Giovanni si lasciò cadere nel prato. Lei era lontana e il gatto le saltellava dietro.

14)

Sentì una voce gentile da dietro le spalle, una voce che diceva: “ma guarda quei due son tornati”. Giovanni girandosi vide un vecchietto che sorrideva. Chissà se anche lui usava tre dentifrici diversi.

Continuò il vecchietto : “sei fortunato Giovanni , chi ha la fortuna di vedere quei due se ne sta in pace a dormire su un ramo e del buio non ha più paura.”

Giovanni lo guardò stupito e gli chiese: "ma tu come sai queste cose, per caso conosci il gatto e la bambina farfalla?"

Rispose il vecchietto: "si li conosco, li conosco da tanto tempo e posso dirti che quello non è un gatto, ma una creatura che può trasformarsi anche in altri animali, la mucca, la volpe, la tartaruga. Quando l'ho visto io era una lepre, avevo più o meno la tua età sai.."

15)

“E perché si trasforma in tanti animali diversi?” chiese Giovanni

“Si trasforma in un animale o in un altro a seconda di quel che gli serve. Tu per esempio sei un bimbo molto vivace che forse non sa che ogni tanto è bello fermarsi e forse, forse hai qualche paura. E qual'è la prima grande paura se non quella del buio? E chi se ne sta più tranquillo di un gatto sul ramo. E quale altro animale vede nel buio? Io ero un bambino triste e la lepre mi ha insegnato a correre sotto la luna.

“E la bambina farfalla?”

“E' lei a consigliargli quale animale scegliere, ed è in grado di farlo proprio perché è una bambina, lei ti ha guardato negli occhi, la prima volta che ti ha visto, no? E con un solo sguardo ha capito tutto di te.”

16)

“Ma non invecchia mai? Hai detto che quando l'hai incontrata la prima volta eri un bambino e adesso tu sei vecchio”

“No, non invecchia e per rimanere con lui deve rimanere una bambina per sempre, altrimenti non riuscirebbe a capire con gli occhi.”

“Ma tu come fai a sapere tutte queste cose?”

“Sai, fino ad oggi, la bambina e il suo amico non li avevo più incontrati, e così mi son fatto tante domande, e questo è quello che io ho immaginato.”

“Bé, magari le domande posso farle io alla bambina quando la rivedrò.”

“Non credo che la rivedrai... oggi hai visto la bambina per la seconda volta e ha giocato con te, non è così?”

“Si, è così.”

“ Be, quello è il suo modo di salutare.”

17)

Giovanni adesso stava in silenzio, non sapendo se essere triste o contento. Il vecchietto allora mise le mani in tasca, tirò fuori tre sassolini colorati e sorrise. Così sorrise anche lui e gli parve di essere ancora sul ramo.

E sul ramo infatti c'era ancora. E sonnecchiava.

Lo risvegliò una lepre che correva come un vecchio non potrebbe mai fare.

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editoriale di ALFAMA

"Wendy è arrivato il lupo cattivo".

Sentirsi solo uno dei tanti Peter, li vedi dalla finestra con le loro vite,le lo loro giornate,salutarsi mentre si siedono,si guardano,muovono le labbra.

".Wendy inventa una scusa e rimani sotto le coperte.Ti racconterò una storia bella e paurosa, una storia vera."

Perdere la propria ombra, ultimo gancio d'umanità . Un gancio d'umanità che ancora ti fà sognare, non è poco.

Una sega a uno sconosciuto in un portone per mille lire,credo che la mia ombra volò via sopra quelle parole. Parole nate da un'altra ombra che ormai aveva perso il suo ultimo gancio.

Avevo forse 6 anni,la mia prima lezione di vita.Vivere senza ombra .Prima lezione per me ,forse ultima per un'altro.

Primo , ultimo. In mezzo l'infinito vuoto.

Vivere senza ombra è difficile,sei il nulla

Chiuderla in una scatoletta,nasconderla nell'angolo più oscuro del cuore sarebbe la più facile soluzione.

Uno spiraglio ti aiuta a capire la verità,angolo di ombra illuminato da un raggio di luce.Un raggio di sole da sbirciare da sotto le coperte.

Sentirsi un semplice Peter è molto difficile, trovare il coraggio sbirciando da sotto le coperte alla ricerca del tuo Pan ti aiuta a capire che luna è molto più grande di un dito

Ma quanto è difficile capire se vuoi essere un Peter o un Pan

Difficile.

Poveri illusi convinti di poter fermare il pendolo.

Illusi di poter scegliere,invece per fortuna sempre all'ombra convinti di chiamarsi Peter.

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