Dislocation

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editoriale di Dislocation

Con colpevole ritardo vorrei sommessamente salutare il Poeta che accompagnò parte della mia stupida, incoerente, disperata e meravigliosa adolescenza, coi suoi versi crudi e terribili, asciutti e dolcissimi, in cui specchiavo la mia breve vita, da cui bevevo a sorsi esagerati quando avrei dovuto centellinarli a gocce, in cui cercavo me, stupendomi dell'evidenza che così bene egli mi conoscesse.
Mi sarebbe ricapitato, nella vita, solo con Sanguineti, con Caproni, con De Andrè, con De Moraes e un paio d'altri.
Sinfield mi graffiava a sangue la fronte e Vinicius da Rio me la tergeva, Giorgio il Livornese la medicava e Fabrizio d'Albaro la riapriva, con due soli versi, con un paio di rime. Bel gioco.

Poi, invecchiato, certo, lo vidi nella caldissima estate del 2010 al Festival della Poesia a Genova (grazie, Claudio, vecchio amico, già semidio della new wave genovese, poi Augusto Organizzatore, coi tre soldi che il Comune ti stillava, del Verso in piazza, sembrava tu scegliessi gli ospiti secondo i miei gusti...).

Grassoccio, no, grasso, sciatto, maglietta da tre lire e jeans gloriosamente stravecchi, pochi capelli e nessun'aura da Vate, semplice come un camallo in pensione e col sorriso sincero di chi apprezza l'amatissimo Shelley ma anche un buon bianco della Riviera, secco e amarognolo.

Ascoltava molto e tutti, rispondeva gentilmente, con quell'accento così scivoloso e londinese, gesticolava pure un po', per spiegarsi e parlava, con grande cortesia, lentamente, con pochissime parole ma tanti avverbi, aspettando sempre che tutti avessero capito.

No. L'aspetto del Vate non ce l'aveva, ma neppure l'aveva mai avuto, neppure da giovane, quando incideva i suoi versi sui miei polsi ed in quelli di tanti miei coetanei e sembrava, a guardarlo, un qualsiasi frequentatore di concerti rock, il bassista d'una band qualunque e prima di compiere trent'anni aveva già abbondantemente alimentato le fonti a cui abbeverarsi di poesia, di testi tra il sognante e lo psichedelico, tra artifizi visionari ed esoterismi arcani.

Pure profetico, a tratti... "Il seme della morte, la cupidigia dell’uomo cieco, poeti affamati, bambini sanguinanti... Non ha davvero bisogno di nulla di ciò che possiede l'Uomo Schizoide del ventunesimo secolo".

Buon viaggio, Poeta.

E scusa il ritardo.

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Ma... avete notato quante recensioni di DeUtenti che non postano mai un ascolto, neanche morti, né nient'altro?
Solo recensioni, perlopiù di prodotti di ultra-nicchia, spesso nuovissimi, quasi sempre, almeno, ma, appunto, di ultra-nicchia...
Conseguentemente si nota, ditemi se sbaglio, un tenore bassissimo del "groove" delle recensioni stesse, tutte scritte in un buon italiano ma senza tensione né una "storia" da raccontare, quasi tutte intese ad una mera descrizione delle caratteristiche della band o degli augusti componenti, con accenni al famigerato track-by-track e poco altro, molto poco.
E nessun sentimento.
Certo, meglio delle recensioni del demente di turno che si finge femmina adolescente e che scrive come una dodicenne del 2002, con la K al posto del CH e la X all'inizio di "perché"...
O quell'altro decerebrato che ci tiene a farci sapere quant'è esperto nella descrizione e nella sistemazione delle sette note sullo spartito, ma che denuncia chiari limiti espressivi quanto creativi, nonché una mezza dozzina di patologie psichiatriche,tutte, peraltro, perfettamente curabili, anche dal SSN che ha istituito, decenni fa, moltissimi Centri di Salute Mentale dove esperti del settore possono prendersi cura di loro e delle loro paturnie, praticamente gratis.
Ma... Torniamo al dunque...
Che il DeB sia caduto in un golpe strisciante di DeRecensori di professione?
Che il prode @[G] abbia appaltato ad esperti testacchioni la Noble Art della recensione, magari stufo di veder recensito "The Dark Side Of The Moon" per la --esima volta?
Il dubbio m'attanaglia.
Il sospetto mi sconvolge.
L'evidenza mi amareggia.

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Su il sipario.

Anonima, in quanto normalità, certo, comune a tanti/e, normalità di miseria, d'immigrazione "interna", di bassa manovalanza, di dignità conquistata col lavoro.
Declinata al femminile, in aggiunta.

Negli anni Cinquanta, nel Nord Italia, neo-ricco, adagiato, nebbioso, tra le fabbriche dell'allora Triangolo Industriale, i porti, le colline e le pianure coltivate a vite, a mais, a grano, alla qualunque, non si aveva solo bisogno di mano d'opera nelle unità produttive, sulle banchine piene d'ogni bendiddio o nell'edilizia che esplodeva, c'era pure bisogno, tra gli strati più agiati della popolazione, di quelle che oggi chiamiamo collaboratrici familiari, che abbiamo chiamato donne di servizio ed allora chiamavano, crudamente, serve.
Perlopiù si attingeva dalle quasi inesauribili riserve delle giovani figlie di Sardegna e Veneto, incredibile a dirsi oggidì, oggi l'opulento, il ricco Veneto...
A Milano, Torino e Genova le signore della buona borghesia dicevano "Devo parlare alla sarda" od anche "alla veneta" intendendo alla colf, ecco, e lo facevano, forse, pure, senza malizia o disprezzo, si diceva così...
Tu, ecco, parliamo di te, occhi nerissimi e profondissimi, grandi e dolci, capelli corvini, lisci, tradivi così la tua provenienza isolana... Poi, portavi il nome della santa-bambina, vergine e martire, adorata nella tua provincia, quella santa festeggiata a fine settembre. Le signore del nord si stranivano, che razza di nome, ma vabbé, sei sarda...

Elegia della normalità. Quella normale.

A sedici anni, occhi neri e profondissimi, stralunata ma decisa e determinata, sbarcasti a Genova, prendesti il treno per scendere a metà della strada per Torino, alla stazione ti attendeva tua sorella maggiore, che già lavorava là da tempo e là ti aveva trovato un lavoro a casa del medico condotto, allora autorità riconosciuta, nei paesi contadini, col sindaco ed il prete.
Oh, già, l'italiano lo mastichi poco e qui parlan davvero strano... Ma mangiano tutti, e tutti i giorni, e tre volte al giorno, poi... E tutti hanno le scarpe, per il lavoro, per la festa, e le ciabatte per stare in casa, la sera...
Qui partì la tua "carriera" professionale, quella di una bambina con la quinta elementare già adusa a qualsiasi lavoro domestico, che si era tirata su quattro fratelli e sorelle, la mamma al lavoro duro nei campi e tu la vicemamma. E ti era servita,l'esperienza "domestica", al nord sapevi praticamente già tutto di come si conduce una casa, i tuoi padroni, come li chiamavi tu, ti volevano bene e ti avevano anche insegnato ad esprimerti in italiano corrente, loro che parlavano solo piemontese stretto, quello del Monferrato, ma tant'è...

Lavoro, lavoro ed ancora lavoro... Poi, un Natale, vacanza a casa, in Sardegna, un amico di famiglia ti presenta un suo amico fraterno, del tuo stesso paese. Bel ragazzo, conteso tra tante, gran lavoratore, all'estero, certo, il sorriso un po'sornione, clarcgheibol de noantri.
Tu, magra, occhi neri e profondissimi, il sorriso timido, sincero...
Bum.
In otto anni di fidanzamento l'avrai visto in tutto dieci volte, vi siete scritti, hai imparato a farlo benino, la grammatica è un po' così ma la grafia è bella, tonda, elegante. Vi siete sposati, chiesetta in riva al mare al vertice basso di quel Triangolo, vivete lì, lui operaio, tu operaia, sono gli anni del boom economico, qualsiasi cosa voglia dire, qualcuno fa il grano con facilità e con altrettanta facilità lo perde, alcuni scalano la società studiando (allora si poteva!!!), altri lavorano come muli dalle sette di mattina alle otto di sera e trovano il tempo ed il modo di far pure due figli, di comprare una televisione a valvole, di votare PCI quando si va a votare, di chiamare il padrone "datore di lavoro", di pagare un affitto per una casa dignitosa, in un quartiere pulito. Niente macchina, non scherziamo, a piedi od in autobus e via andare.


Canzonissima, passeggiate tutti insieme, la domenica pomeriggio, sul lungomare a parlar di quella cosa lì, di futuro, quel futuro d'ogni giorno, magari cinema, tre, quattro volte l'anno e ballo liscio alla Festa dell'Unità, vi guardano tutti, siete due assi, col liscio, col tango...
Coi figli sei, naturalmente, una gran mamma e sai ogni cosa che serva a tirarli su, tu che hai cresciuto i tuoi fratelli minori, comprendendo,ogni tanto, un manrovescio,secco, ben dato, preciso, non bisognoso d'ulteriori, particolari, spiegazioni.
Usava così.
Poi tanta fatica, finalizzata alla comprensione dei ragazzi, in questi tempi così diversi dai tuoi, da quelli della tua giovinezza, in gran parte negata dal lavoro e dalle responsabilità.
Sempre e comunque dolcissima, come sei sempre stata.

Ancora... Elegia della normalità.

I figli, terribili, ma studiano, fanno sport,sì, ma "Signorammìa, suonano in quei gruppi di gente strana , poi la politica, c'è bisogno di picchiarsi coi carabinieri per fare politica, signorammìa?"
Poi lui rileva una piccola attività e tu lo segui, poi tutto come tutti, i figli crescono, lui, "Gran lavoratore, signorammìa, e le donne, le donne gli son sempre piaciute, l'ho sempre saputo, ma me lo son tenuto lo stesso, e ogni sera torna a casa, sempre e comunque... Io? Bene, insomma, un po' di acciacchi, circolatori e cardiaci, a volte mi manca il respiro, anche se non lavoro più..."
Avete comprato casa, un po' fuori città, quartiere operaio, col mutuo, certo, dopo vent'anni di lavoro, in Sardegna non ci torniamo, che ci facciamo, ormai?

Elegia della normalità.
A tutti i costi.

Sipario.

Occhi neri. E profondissimi.
Li chiudi per sempre a cinquant'anni, lasci questa valle di lacrime, ti sei addormentata e non ti sei svegliata, con un mezzo sorriso sulle labbra, discreta come sei sempre stata, ai limiti della disperazione, come sei sempre stata, elargitrice d'affetto incondizionato, come sei sempre stata.
Dolcissima, come sei sempre stata.

Perché ti scrivo ora? Insomma, mamma, oggi è il tuo compleanno.

Auguri.

Un bacio.

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Venticinque luglio, che caldo, eh?

La Storia, eh?

C'era una volta, in un venticinque luglio di tanti, non troppi, anni fa, un imbelle, delinquente ed incapace, di mestiere re, che fece arrestare un pluriassassino con velleità da statista, amico ed alleato di un multikiller già suo allievo, che aveva di molto e da molto superato il maestro. L'imbelle in questione, di mestiere re, che in vent'anni mai aveva contrastato, anzi, aveva spianato la strada agli sporchi misfatti dello "statista", lo sostituì con un vecchio ottuso a fine servizio, facendo compiere alla nazione ingannata, stracciata, squassata e bombardata un'elegante inversione ad U, compromettendone per sempre la credibilità internazionale dopo averne minato irrimediabilmente l' unità interna ma schierandola, oplà, quasi fuori tempo massimo, coi vincitori della più sanguinosa guerra fino ad allora mai combattuta ed aprendola a nuove invasioni d'ogni genere, non solo belliche, da molti lati e da diverse provenienze, una dopo l'altra, nel disperato tentativo di ripulire un Paese dalle porcherie compiute in due continenti.
L'allievo teutone corse in aiuto del suo ex maestro, liberandolo dalla comoda prigione montana in cui il vecchio imbelle delinquente di mestiere re l'aveva confinato, anziché farlo passare, più degnamente, per le armi.
Si aprì così una breve, nuova stagione di indegnità pressoché inedite, con nel mezzo poche migliaia di uomini verticali, ancora disposti ad immolarsi per una patria che li aveva prima perculati fin dall' infanzia e poi dispersi su almeno sei fronti di guerra, per poi, in tempi di pace, vedersi accusare d'ogni nefandezza dai nipotini di chi, le nefandezze, le aveva davvero compiute in nome e per mano del sopra descritto sedicente statista e del suo teutone ex allievo.
A due anni scarsi dalla notte del suo arresto il pluriassassino, dopo aver ripreso il potere da servo del teutone, ebbe modo di vedere il mondo rovesciato, appeso per i piedi, insieme ad una piccola schiera di suoi accoliti, pago di aver cosparso di trecentoventimila cadaveri di suoi compaesani l'Unione Sovietica, la Jugoslavia, l'Albania, la Francia, il Nordafrica e l'Africa Orientale, la Grecia ed il mar Mediterraneo e di aver cacciato sottoterra anzitempo poco meno di trentamila civili, periti sotto le bombe in arrivo dal cielo patrio di cui il nemico, eh, era padrone assoluto.

La Storia, eh?

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L'Undici.


Un giornale sportivo argentino, alla notizia del suo gran rifiuto a passare alla Juventus per dieci centinaia di milioni (di allora...), lo definì, a tutta pagina, "Un Hombre Vertical".
Altro?


Sardo vero, nei fatti.
Diceva, lui, lombardo di Leggiuno: "Lo sport da solo non può essere in grado di cambiare una regione povera come la nostra..." Dove "La nostra" era la Sardegna, però.


Il Calciatore:

Un giorno si ritrovò in macchina Grazianeddu Mesina ed un po' si preoccupò, disse, ma Neddu voleva solo sincerarsi che lui non mollasse il Casteddu per la Juve o chi altro.

Di che parliamo? Delle famose rovesciate, delle giocate spavalde, di potenza infernale, del pallone lanciato a 120 all'ora che spezza in tre parti il braccio di un raccattapalle di nove anni, Danilo, appostato dietro la porta avversaria, le cui cure seguirà poi personalmente ed a cui dedicherà un pallone firmato da lui ed un goal contro la Lazio.
Della sua infanzia... Profondamente segnato da un'infanzia a dir poco precaria (il padre morì in fabbrica, trafitto da un profilato d'acciaio che gli squarciò l'addome e la schiena) non perdeva occasione, nelle pochissime interviste concesse, di denunciare il trattamento da bestie ricevuto al collegio cattolico dove la madre lo mise, non potendolo mantenere da vedova poverissima: "Noi poveri dovevamo guadagnarcelo, il pane dei preti, con preghiere e continue confessioni... solo così il don ci mollava da mangiare... brodaglia e schifezze, altroché... Tre volte, ne sono scappato..."
Era uno di quegli uomini cui bastava uno sguardo per giudicare l'altro ed uno per intendersi con chiunque.
Uno dei più bei ricordi d'infanzia mi vede allo stadio, sei o sette anni, io, a Genova, un Genoa-Cagliari, in cui lo chiamo a gran voce dal bordo campo, io genoano dalla nascita e, non so perché, lo salutai a grandi gesti. Lui, nel mezzo della partita, si voltò e mi sorrise, proprio a me, un bambino tra tanti adulti vocianti, con quel quarto di sorriso che gli era tipico, il suo, e accennò un saluto con la testa.
Nel 1968 il fulmine che gli incendiò e gli invase la vita, l'incontro con una donna, i due si innamorano, vanno a vivere insieme anche se, tecnicamente, lei è sposata. Scandalo, copertine di rotocalchi. Comunque vivono insieme quattro decenni, poi si separano e resstano amici, molto amici, insieme hanno fatto due figli, nati e cresciuti in Sardegna.

«Io un partito ce l'ho e mi sono sempre schierato da quella parte: il partito dei sardi. Io simpatizzo per chi sbaglia, per chi vive in un certo modo».
Ecco.

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editoriale di Dislocation

Ci hanno prosciugato i dotti lacrimali, disseccati.
Ci hanno promesso una giustizia, non una qualsiasi.
Ci hanno abbeverati alla fonte della pietà.
Ci hanno fatto inorridire di noi stessi, quando abbiamo desiderato la pena di morte per i miliardari dei tessuti e del pedaggio e per i loro disgustosi scagnozzi alla ricerca della soddisfazione dei pescecani del surplus.
Ci hanno costretto, in quattro anni, a cambiare strada od a girarci dall'altra parte quando passavamo davanti ai monconi del ponte crollato od anche al nuovo ponte rifatto.
Ci hanno portato ad alzare a manetta il volume dell'autoradio quando passavamo sul nuovo ponte, lucido come uno specchio, freddo come un cancro.
Ci hanno persino fatto guardare con disprezzo gli operai al lavoro nei cantieri autostradali, sotto la pioggia o sotto il sole a 35 gradi di temperatura.

Ieri, un vecchio compagno, cancelliere in tribunale, prossimo alla pensione, davanti a fugassa e vin giancu, mi ha detto che i magistrati che hanno iniziato il processo "Morandi" hanno gli occhi spiritati, che raramente, in quarant'anni a Palazzo di Giustizia, ha visto dei giudici con lo sguardo fermo e deciso come il loro. "Darebbero tutte e due le braccia per non finire negli stralci, nelle derubricazioni o, peggio che mai, ad una scadenza di termini.... Mi accendono una debolissima speranza nella giustizia, e tu sai dove e da quanto lavoro io..."

Oggi tanta gente si accalca sotto al nuovo ponte, in quello spazio informe ed anonimo, risicato e rosicchiato, all'incrocio della Certosa, ad ascoltare gli infami senza dignità che sul crollo di quel tumore malcurato ci hanno costruito fortune politiche, il Gatto e la Volpe dell'agone politico genovese, cementatori presenzialisti e rotti a qualunque compromesso in nome di carriere tanto anonime quanto qualunquisticamente indegne, a sentire il vescovo e l'imam, due brave persone, due uomini buoni, ma due preti, insomma.
Tutti gli astanti si proteggono dal sole con ombrellini bianchi, tutti uguali, forniti dagli organizzatori, sembra una sfilata di moda di quart'ordine.


E poi i parenti, i parenti di quarantatré nessuno qualunque, colpevoli solo di aver preso un'autostrada per andare in vacanza od a lavorare, i parenti delle vittime, capitanati da una smunta signora consumata dal dolore, che ha sempre dignitosamente resistito all'usura del pianto e dell'Assenza, delle promesse e delle garanzie, orgogliosa e severa, col sorriso triste di un Don Chisciotte che ripensa a quant'erano grossi i Mulini A Vento, ed intanto parla ai convenuti senza guardare in faccia né politici né preti, parla di contratti di concessione che non avrebbe firmato un bambino dell'asilo, di disillusione, di speranza nel rispetto per le vittime e per il dolore dei congiunti.

E poi, tra le lacrime, cita una frase sentita da un parente di una vittima della strage di Bologna: "A forza di osservare minuti di silenzio sono passati anni di vergogna"

E poi musica ed applausi, la violoncellista che non strazia nessun animo, col cameraman della tivù locale di Cavalier Serventi che, per un attimo, nella noia che lo pervade, inquadra meglio i presenti, seduti, con gli ombrellini bianchi aperti, che occupano si e no due terzi dei posti a sedere disponibili.

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Discorso ozioso, da pausa sul lavoro, tal è e per tale va inteso.

Mi sento addosso odore di snob, o puzza di merdina d'uomo, nella variante del DeBaseriano Classista, perdipiù.

Insomma, ditemi un po' voi... Mi sono scopero classista, nell'accezione DeBaseriana del termine. Quando leggo una recensione e scorgo il nome del recensore, subito lo classifico come "Esclusivamente Recensore" oppure come "Frequentatore Abituale E Recensore". Insomma, non so perché, ma ho sviluppato, non dico proprio un'idiosincrasia, ma comunque una forma simil-repulsoria verso chi frequenta il sito solo per esibire, ogni tot, una recensione, senza mai partecipare alla vita attiva del DeB stesso, senza mai postare un ascolto, un parere, un commento.

Voi direte che è perfettamente legale e permesso dalle dinamiche e dalle regole che il sacro G ci impose nella notte dei tempi, che nulla vieta a chiunque si apra un profiletto di postare poi una recensione, ed avete ragione ma, come già detto poco sopra, mi son scoperto uno spirito merdina/classista, e tendo, forse colpevolmente, a distinguere, nella folla di spostati che frequenta queste pagine, chi le frequenta attivamente e chi invece si palesa solo sporadicamente e soltanto per comunicare i propri tiramenti riguardo ad un'opera di sua scelta. Come molti tra noi anch'io non amo chi fa sfacciatamente promozione per i propri prodotti, musicali od altro, senza addentrarsi in discorsi che si discostino dalla mera autopromozione... poi mi direte che alcuni vecchi debaserioti l'hanno fatto, hanno postato ascolti in cui proponevano proprie creazioni e le hanno sottoposte al giudizio degli altri, ricevendo complimenti, sberleffi, insulti, suggerimenti, insomma, creando discussione ed empatia. Ecco, forse sta qui il distinguo che adopero in quest'argomento: alcuni recensiscono sporadicamente cose e stanno tra noi solo per fare ciò, lo fanno con freddezza ed indifferenza alle dinamiche del sito a cui, evidentemente, non sono minimamente interessati.

Mi piacerebbe sapere che ne pensate, di costoro e del mio atteggiamento verso di loro, se lo condividete o se lo condannate.

Ancora diverso è poi l'approccio di chi scrive "Questo sono io, genio incompreso, questo è il prodotto del mio genio, voglio che sappiate che l'ho creato e l'ho reso disponibile alle orecchie delle Masse".

Ecco, fai così e stai certo che, nel mio piccolo, non ti presterò un ascolto che sia uno e, potendo, ti trancio le recensione in due e ti rinfaccio anche le virgole ed i trattini messi in maniera errata...

Ve l'avevo detto che ero una merdina.

PS perché la 600 D in figura?

Eh.

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Sei sempre stato silenzioso e riflessivo, fin da piccolo. Ma eri anche allegro, e sarcastico fino alla cattiveria, un po' vendicativo ma anche dolce ed estremamente empatico.

E con pochi amici, scelti e fedelissimi.

Io lo sapevo.

Eri mio fratello.

Mi faceva incazzare, la mamma, mi costringeva a portarti con me, quando uscivo. Ma fu così che scopristi la musica.

Odiavi quella che facevo io col mio gruppo, la new wave, ma amavi i dischi di Zappa e dei Beatles che ti passavo.

A quattordici anni ti sanguinavano le dita dopo le nottate passate a provare i passaggi e le svise di Jaco.

A sedici suonavi in un gruppo jazz dove gli altri componenti avevano tutti più del doppio della tua età.

Io lo sapevo.

Eri mio fratello.

Poi ti sei perso, poi la naja, poi non proprio una gran voglia di lavorare, perlomeno non di fare quel che non ti piaceva, perché i lavori che ti appassionavano li facevi benissimo, ci mettevi cuore e cervello, come in quei giri di basso velocissimi e vorticosi che facevano ammattire il tuo batterista, come il modo in cui ti prendevi le ragazze che volevi, solamente guardandole, quelle che volevi.

Io lo sapevo.

Eri mio fratello.

Abbiamo passato l'infanzia e l'adolescenza insieme, io che ti parlavo di tutto e non tralasciavo un particolare, tu che dicevi tre parole e ti esprimevi a meraviglia.

Poi ci siam persi di vista per quindici anni almeno e, quando sei tornato, abbiamo ripreso il filo da dove avevamo smesso.

Poi la tua malattia, le sacche di sangue, le flebo, il mostro che ti consumava, da dentro, le energie e la forza.

E poi quella mattina, dopo una notte di sofferenza, tu che ci dicesti, a me ed al nostro fratellino più piccolo: "Ciao, ragazzi, io vado...".

Una parvenza di sorriso, addirittura.

Mi manchi da diciassette anni.

Ciao, Marchino.

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È bambagia, forse nuvola, no, più solida, ma morbidissima, diciamo panna, panna e assenza, indifferenza... e dormo, dormo bene, senza peso... Poi grida, mi chiamano, applausi... no, non applausi, qualcuno batte le mani, e chiama... no, MI chiama... Chiama il mio nome, ad alta voce, mi ingiunge di svegliarmi, in modo deciso, ma è più un invito che un comando... Mi girano le palle, nella panna si sta bene, se apro gli occhi cosa trovo, che ne so... Niente da fare, vogliono che mi svegli e mi sveglio, allora... Vedo chi mi sta chiamando e batte le mani per svegliarmi e di botto la capisco tutta, la faccenda. Mi ero addormentato in casa, di botto, il cuore a mille, non respiravo più, moglie e figlia che piangono a dirotto e mi risveglio in un reparto ospedaliero che conosco, per lavoro, ed ora sto dall'altra parte della barricata. È la Rianimazione, perdio, e allora me ne è successa una grossa, sta' a vedere, e difatti me lo spiega un medico. Mi dice che dormo da trentasei ore, che ho avuto tre arresti cardiaci dopo un'embolia polmonare, che devo la vita al medico del 118 che mi ha ripreso tre volte per i capelli e mi ha trombolizzato in casa, sul pavimento della sala, un bel fegataccio. Così vado avanti per ventitré giorni in una girandola di siringhe, pillole, flebo, visite e consulenze, e poi padelle e pappagalli, e poi le sigle per acronimi, tac, rmn, pic, ecd, abg, fr, ica, iot, fkt... Dormo poco e mangio meno, il sonno è continuamente costellato di ricordi l'infanzia, la scuola, mio padre e mia madre, la naja, l'amore, mia moglie e mia figlia, il lavoro... Poi, dopo due settimane filate di letto totale mi fanno alzare, ma non ho più polpacci né cosce, mi sento un ottantenne , ma ogni giorno miglioro, cammino come un invasato per i corridoi del reparto, poi mi dimettono e torno a casa, mi passa finalmente il mal di testa che mi durava dal primo giorno e riesco a leggere un po', riprendo il cellulare e rispondo piano piano a chi mi aveva contattato per avere notizie e, perdio, scopro preoccupazione e dispiacere in persone che non sentivo da tempo, alcune da anni, e mi vergogno un po' al pensiero di non sapere nulla dello stato di salute di colui che si documenta con me delle mie vicissitudini .

Poi c'è il Deb, caspita se c'è.

Ma non era morto?

Beh, insomma, mentre ancora non riesco ad ascoltare musica, mentre cammino come un invasato sul lungomare o mentre rinforzo i polpacci, mi trovo a sorridere dei commenti e della vita su Debaser, di chi si sfotte, di chi s'incazza, di chi mostra con piacere, o anche evidente orgoglio, la scimmia che regge sulla spalla, facendo sfoggio di sindromi maniacali che rimpinguerebbero le sostanze di fior di specialisti psichiatri e simili. E la scimmia, si sa, è dispettosa e spesso mostra il culo agli astanti.

E passo così ai ringraziamenti, anche qui non sapevo di poter contare sulla solidarietà di tanta, davvero tanta gente che, mi siete tutti testimoni, mai ho incontrato e forse mai incontrerò, visto che ho deciso di non fare più tanti progetti, dopo che ho provato la certezza dell'inutiliità dei suddetti... il mio grazie però va alle decine di debaseriani che, nella mia incredulità, hanno messo nero su bianco la loro solidarietà, scrivendomi nell'area messaggi, per me, un tale di cui si è saputo che stava male, ed in particolare ad alcuni che periodicamente mi scrivono informandosi sui progressi che faccio e si consumano in auguri. Ora sarebbe indelicato fare nomi, ma chi l'ha fatto lo sa, e di altri so per certo che la loro naturale ritrosia ha impedito loro di disturbarmi, si son passati le notizie l'un l'altro, e l'altro me l'ha detto.

Grazie davvero, a tutti, davvero.

Debaser non sta morendo, ve lo giuro sulle vostre teste.

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