Di notte, in ospedale, non si riesce proprio a dormire.
Il campanello suona in continuazione, le infermiere parlano ad alta voce per tenersi sveglie, c’è uno, nella stanza a fianco, che chiama la moglie perché vuole andare a casa. A te hanno dato una sedia su cui dormire e porca la miseria averlo saputo almeno mi portavo un cuscino per appoggiare la testa.
Hai i piedi gonfi per la giornata appena trascorsa.
Gli occhi stanchi per dovere stare al buio.
Il caffè della macchinetta ti fa capire che no, non hai risolto del tutto quel problema di reflusso.
E di uscire a fumare non se ne parla, perché se magari “lui” o “lei” si sveglia, vuoi essere lì.
Mica che succede qualcosa…
E allora, di notte, in ospedale, cammini.
Cammini nella stanza, intorno ai letti. Conti i passi dalla porta alla finestra.
Cammini nei corridoi, passando davanti agli ascensori, intercetti le chiacchiere delle infermiere
E speri che il tempo passi in fretta.
E di solito no, non passa in fretta.
Di notte, in ospedale, conosco Antonio, un signore non esattamente distinto, sulla cinquantina, che mi risulta subito simpatico quando, al momento delle presentazioni, si gioca il tutto per tutto con un: “Dammi pure del tu, che tanto siamo praticamente coetanei”.
E’ lì per sua madre, a suo dire “una cacacazzi pluridecorata”, di quelle che dormono 10 minuti alla volta, solo per il gusto di svegliarsi e lamentarsi per il caldo/freddo/fame/dolore/noia/stanchezza, con una brutta tosse che mi sa tanto che nasconde qualcosa di ancora più brutto.
Fin dalla prima sera, io e Antonio chiacchieriamo un sacco, ma è lui quello che ha più urgenza di parlare.
E così, in circa due settimane, da mezzanotte alle sei, Antonio mi racconta di fatti, persone, case e cose talmente belli che non possono non essere veri.
Mi parla di un viaggio a Parigi fatto a vent’anni, che gli ha cambiato la vita perché “c’eravamo noi che puzzavamo di pasta al sugo cucinata da mammà e c’erano tutti sti ragazzi di 17, 18 anni che vivevano in 6 in un sottotetto pur di andarsene da casa”.
Mi racconta della Milano da bere degli anni ’80, di un frego di soldi persi al gioco, di vacanze sulla barca del suo amico figlio di cotanto padre, di cene in ristoranti di lusso che oggi nemmeno esistono più.
Non mi parla quanto vorrei dei due anni vissuti da single con due hostess per vicine di casa.
Mi parla di una donna con cui è stato fidanzato 10 anni, di quando l’ha lasciata, e di come, dopo solo pochi mesi, si è messo con quella che, oggi, è sua moglie e la madre di sua figlia.
Mi parla di suo padre.
Mi dice che non si rivolgevano la parola da un sacco di tempo. Da anni, addirittura.
Finché al suo vecchio non hanno diagnosticato un male di quelli brutti e ad un certo punto i dottori gli hanno detto “Forse è il caso che vi salutiate come si deve”.
E allora padre e figlio hanno ricominciato a parlare.
E a camminare insieme.
Perché il padre di Antonio aveva una specie di infezione alla gamba e l’unico modo per avere un po’ di sollievo era camminare.
E visto che le forze poco alla volta lo stavano abbandonando, Antonio se lo prendeva sottobraccio e lo accompagnava in giro per i corridoi dell’ospedale.
Di notte, soprattutto.
Che tanto di dormire, la notte, in ospedale, proprio non se ne parla.
Finché, un giorno, Antonio non ce l’ha fatta più.
Perché di notti, in ospedale, non ne puoi mica fare tante, a rischio di crollare e di lasciare indietro la tua, di vita.
E allora Antonio mi racconta di Italo, un ragazzo sui vent’anni, studente di chissà quale facoltà, che per pagarsi i libri assisteva gli anziani di notte.
E io Italo me lo immagino come uno sfigatone pazzesco, di quelli che non parlano mai, con la faccia da babbazzo e i baffetti puberali pure a vent’anni. Ma buono.
E mi immagino che, col tempo, abbia preso la laurea e sia diventato un professionista affermato e apprezzato, magari ricco e magari con la moglie figa. Ma comunque buono.
Antonio mi dice che una volta, sarà stata l’alba o giù di lì, se ne stava a casa, nel suo letto, ma proprio non ce la faceva a dormire. Manco fosse in ospedale.
E allora s’è vestito ed è andato a vedere come stava suo padre.
Entrando nella stanza, lo ha trovato piegato in due dal dolore, con le mani strette intorno alla gamba malata. E, in un angolo, seduto tutto storto su una poltrona, il buon Italo che se la dormiva della grossa.
E Antonio s’è subito incazzato, è partito come un missile pronto ad indorare il culo del povero Italo con un rosone di calcinculo eccheccazzotipaghiamoafare.
Ma subito suo padre lo ha fermato.
“Lascialo stare, Antò… Hai visto come dorme bene? Se lo guardo non mi sembra nemmeno di stare in ospedale…”
Immagine: "Uncomfortable sleeping position" di Julia Boersma;
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