editoriale di lector

Tutte le cose possono ammantarsi di meraviglia se le guardi con gli occhi di un bambino, anche le edicole dei giornali.

Mio padre, all’edicola, mi ci portava tutte le domeniche mattina.

La sua manona stretta alla mia, per me era pure meglio del negozio di giocattoli. Noi facevamo le “cose da grandi”: lui si comprava il suo pacco di giornali ed io il mio giornalino, poi andavamo dal barbiere a leggerli e, qualche volta, ci scappava pure un passaggio dal bar. Lui era così: i giornali se li comprava tutti i giorni, almeno un paio, e la domenica tre o quattro riviste di approfondimento politico (qualche anno dopo sulle copertine di quelle stesse riviste – Espresso, Europeo, Panorama…- avrei anche scoperto il fremito dei primi nudi femminili, ma questa è altra storia).

La mamma si arrabbiava, i soldi erano pochi e lei non capiva perché dovessimo sprecarli così. Ma noi non ci avremmo mai rinunciato, per nulla al Mondo!

Lui era fatto così: era convinto che fosse questo il suo modo di stare al Mondo e di cercare di capirlo e di cambiarlo, avrebbe rinunciato persino a fumare per comprarsi i giornali (e, per lui, era davvero un gran sacrificio!) e, poi, si divertiva a portarmici ed io l’aspettavo per tutta la settimana quel momento in cui avremmo fatto le “cose da grandi”.

Scampoli di felicità che, come brace sotto la cenere, ti riscaldano per tutta una vita.

Sarà per questo che mi piacciono così tanto le edicole di giornali, ancora oggi, ancora adesso che sono ridotte a piccoli bazar. Sarà per questo che mi fanno orrore quelli che cianciano di “bruciarli tutti, i giornali” e che si vantano di non leggerli. Ecco, quelli che vogliono “bruciarli tutti, i giornali”, per me, sono della stessa pasta di quelli che bruciavano i libri: hanno lo stesso incedere beota, lo stesso argomentare caciarone e suino, lo stesso pecoronaggio vittimista ed arrabbiato che dà del pecorone agli altri (e niente appecorona meglio del sentirsi “perseguitati” e vittime), lo stesso furore fideistico di quelli là.

E lo so benissimo che ci sono libri e giornali di merda, non sono così ingenuo da non sapere quanto schifo giri intorno al mondo dell’editoria come intorno a quello dell’informazione e della carta stampata. Lo so che quello dell’Informazione è un mercato e, dove vigono le regole del mercato, spira sempre un’irrespirabile puzza di merda.

Ma i libri (e i giornali) non si bruciano! E non solo i libri di Čechov o di Kafka, non si debbono bruciare nemmeno quelli di Moccia o di Vespa. Così, allo stesso modo e per lo stesso motivo difendo pure roba come “Libero” o “Donna moderna”.

Certo ci sono i canali di informazione “alternativi”, fonti oscurate, testi “maledetti”, tutta roba che, a saperla cercare la trovi sul web.

Ma, vedi, io in un posto dove circola da chi di giura che, suo cugino, è guarito anche dalla carie cogli estratti di papaya a chi ti spiega la fisica quantistica con i pupazzetti di pongo – ecco – io, in un posto così, non mi ci raccapezzo.

E, poi, c’è che le notizie, sulla rete, te le danno gratis ed io non mi fido di chi ti regala certe cose; in qualche modo e per qualche motivo c’è sempre chi ci deve guadagnare. E, allora, preferisco darli al “mio” edicolante i miei soldini, illudendomi di sapere quanto e come (e forse a chi) li pago.

Se non altro sui giornali, chi scrive ci mette la firma col suo nome e la sua faccia e, generalmente, con quel nome e con quella faccia ne risponde di quello che scrive, e quindi almeno dovrebbe provare a basarlo su una qualche pezza d’appoggio, quello che scrive. E’ un po’ diverso dai social dove, metti che un tizio qualunque, su di un sito qualunque, protetto da un nickname qualunque, si faccia venire la voglia, per chissà quali motivi suoi, di scrivere una enorme porcata tipo: “i veri colpevoli delle alluvioni in Emilia Romagna sono i geoingegneri climatici che hanno voluto, in questo modo, colpire alcune popolazioni “disobbedienti””.

Così, senza neanche doversi preoccupare di fondare le sue affermazioni su di una fonte più o meno attendibile.

Ora, che rischia uno così? Al massimo qualche insulto o che un povero moderatore lo metta fuori dal sito (tanto torna con un altro nick e ricomincia come prima). Intanto la notizia gira e qualche pollo ci casca. Fallo centinaia di volte e nei modi giusti e vedi che si crea un gran bel polverone, e nel polverone qualcuno sempre ci sguazza. L’illazione si alimenta da sé, non ha bisogno di essere dimostrata, ad un certo punto la stessa insinuazione si trasforma nella fonte di sé stessa.

E’ molto più facile fare così che cercare di controllare tutto un mondo, quello dell’informazione scritta, nel quale – al netto di servi più o meno arricchiti, leccaculo a volte persino felici di poter leccare e poveracci precari e malpagati costretti a scrivere un tanto al chilo – ci finisci sempre per trovare un fesso che ci crede, un testone con la schiena dritta e pure un certo numero di tizi che le cose di cui scrivono le conoscono davvero; e a quelli così o si prova a pagarli, o si cerca di smerdarli o, se non ci si riesce, finisce che si è costretti a sparargli una pallottola in testa. Si trattasse pure di un ragazzotto ingenuo e sconosciuto come quel Siani, lì.

Non è che devi essere una Capacchione o un Berizzi (andatevi a cercare chi è e qual è la sua storia), ma neppure un Purgatori o una Mannocchi (che almeno in certi posti c’è stata veramente); ti basta essere un Santoro, un Mentana o pur anche un Gomez per sapere che il tuo nome – in questo lavoro – è tutto quello che hai. Persino un Vespa o un Sallusti lo sanno che non si può scendere sotto un certo livello, persino loro hanno ben chiaro in testa il limite oltre il quale sarebbe suicida scendere (per dire: un Sallusti una merdata come quella delle popolazioni punite con le alluvioni, col cazzo che la firma! Al massimo, se proprio deve, la fa scrivere a qualche poveraccio precario o free lance, salvo poi prendere le distanze se la cosa comincia a puzzare).

Giornali e giornalisti vivono (quelli che ci campano veramente) della loro credibilità (comunque la si sia ottenuta), blogger e siti web campano sui like, capisci che c’è una certa differenza…

Di giornali e di giornalisti non sempre mi fido ma, la maggior parte delle volte, li prendo sul serio. Perché è un mondo di merda dove si menano senza ritegno mazzate e colpi bassi e, per restare in piedi, ci devi avere le palle. E prendo sul serio soprattutto quelli che non mi piacciono, che mi stanno sugli zebedei, che non la pensano come me (la stragrande maggioranza, in effetti): è con loro che so che mi devo misurare.

Ancora mi ricordo l’incazzatura quando leggevo certe cose della Fallaci; ma lei, le cose che scriveva le conosceva, il mondo lo aveva girato più di me, in certi posti ci era entrata davvero e certa gente l’aveva guardata negli occhi e, poi, scriveva da dio! E, allora, era dura fare la fatica di continuare a pensarla diverso, bisognava faticare per rimanere delle proprie opinioni, per provare a smontare quei ragionamenti (ben consapevole che in uno scontro faccia a faccia mi avrebbe distrutto). Così ho imparato il dubbio, l’antidogmatismo e la fatica dell’argomentare.

E c’è ancora un’altra cosetta che si chiama concorrenza: perché quello dell’informazione – c’è bisogno di ripeterlo? - è un mercato e, sul mercato, ci stai stretto a fare a spallate cogli altri che conosci bene. Per cui, se c’è una notizia che proprio non vorresti dare, ma gli altri l’hanno già pubblicata, allora sei costretto a darla per forza pure tu. E, allora, la sminuisci, la deridi, la smonti o la sputtani, ma è proprio il modo in cui la sminuisci, la deridi, la smonti o la sputtani che – ai miei occhi – dice un sacco di cose in più su quella notizia.

E, insomma, ecco perché tutti i giorni sono qui, dal “mio” edicolante e la domenica ci porto pure i bimbi. Io sono fatto così: mi sono convinto che questo è il mio modo di stare al Mondo e di cercare di capirlo e (ormai non più) di cambiarlo, e rinuncerei persino a fumare (se fumassi) per comprarmi i giornali.

O, magari, sono solo un tizio fuori tempo massimo che cerca, in qualche modo, di raccapezzarsi, di aggrapparsi a qualche certezza, una qualunque. Il futuro ormai non mi appartiene più ed il presente, al massimo, mi sopporta. Semplice spettatore non pagante (…aspè! Pagante! Pagante eccome!)

Così me ne vado, bel bello, coi miei giornali e mi siedo al bar; gioco a mettere insieme i pezzi del puzzle, mi sforzo di farli combaciare; certo potrei fare il sudoku, ma il sudoku non mi diverte! Apro la prima pagina e subito m’incazzo: “CAZZ..! Ma come cazzarola si fa a scrivere una roba così!”; il caffè mi va di traverso, una signora mi guarda…

Va bene, ma io lo so chi è che ha scritto quella cosa lì, qual è il giornale su cui l’ha scritta quella cosa lì (l’ho comprato apposta!) , lo capisco perché l’ha scritta quella cosa lì. O, almeno, mi illudo di capirlo. Io ci vivo di illusioni: magari mi illudo pure quando mia moglie mi dice che mi ama, quando mio figlio mi giura che non l’ha fatta lui quella marachella, quando una collega mi ringrazia per come ho svolto quel dato lavoro. Magari così vivo meglio, chi può dirlo? Non so ma ho sempre l’impressione che certi mestatori siano persone umanamente un po’ tristi, ma è solo una mia impressione.

E, allora, finisco di leggermi i miei giornali, lasciando per ultime le pagine sportive, finisco di bermi il mio caffè (o quel che ne resta), mi accerto di non essermi sporcato la camicia e me ne vado. Non prima di aver lanciato un cenno di saluto alla signora che si era preoccupata ed al barista e, di certo, non dimenticandomi di passare di nuovo dal “mio” edicolante.

-“Ci vediamo domani!”

Perché domani ci torno di nuovo. Ci torno; ci torno tutte le volte che posso. Ed ogni volta, ogni volta, ogni volta, ogni volta…

C’è quella manona nodosa che stringe la mia manina di bimbo

-“Papà, mi compri il “corriere dei Piccoli?””

-“Ma certo!”

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editoriale di lector

La scuola, per come la conosco io, è finita una mattina di fine febbraio del 2020.

Avrebbe dovuto essere solo una chiusura per disinfestazione straordinaria causa covid. Ma tutti noi sapevamo, nel salutarci, che da quel momento il cammino si sarebbe fatto incerto. E, infatti, ho rimesso piede nella mia scuola solo a fine giugno, per quella roba che qualcuno ha voluto ostinarsi a chiamare “Esame di Stato”.

La scuola ha poi riaperto i battenti alla fine del settembre successivo, ma col 50% degli alunni in presenza, e li ha rapidamente richiusi il 16 ottobre: la Campania è stata l’ultima Regione a riaprire e la prima a chiudere.

A tutt’oggi non sono ancora rientrato in classe. Dal 26 aprile il sindaco di Avellino posticipa, con ordinanze a cadenza settimanale, il rientro a scuola per gli Istituti Superiori.

Si va avanti in DAD (o DID o qualunque altro idiotissimo acronimo l’ottusità burocratica voglia inventare). Da sempre nella scuola la parola d’ordine è “arrangiatevi” ed i matrimoni si celebrano rigorosamente con pizza & fichi.

In questo anno e mezzo la mia casella di posta è stata invasa da petizioni, richieste di adesione, lamentazioni, proposte, alti guai, peana, accorati appelli, richieste di aiuto, denunce piene di amarezza, cahiers de doléances…

Ho letto di tutto, credetemi, da chi si sentiva cavia di laboratorio a chi proponeva nuove rinascite e piani di ricostruzione fantascientifici, da chi pretendeva considerazione per un lavoro che, spergiurava, la DAD non aveva sminuito a chi riteneva la stessa DAD il vero futuro per l’insegnamento. Alla fine a dominare era sempre la paura: paura di dover tornare in classe senza le dovute rassicurazioni, paura di dover subire orari scaglionati e pomeridiani, paura di dover lavorare PURE D’ESTATE!! E tutte con allegata richiesta di firmare e di far circolare la petizione di turno.

E tutte con un solo grande assente: gli studenti.

Così alla fine ho fatto una cosa che non faccio mai: ho mandato una lettera di risposta.

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Get.le Scrivente

Una commessa di supermercato va a lavorare tutti i giorni ed è necessario che sia così: la chiusura dei supermercati comporterebbe problemi difficilmente risolvibili. A nessuno è venuto in mente di richiedere che l’apertura dei supermercati avvenisse solo dopo che si fossero assicurati trasporti sicuri e nessun assembramento fuori dei supermercati stessi (immaginate cosa gli sarebbe stato detto!), né tantomeno si è ritenuto di aprire una corsia preferenziale per la vaccinazione di questa tipologia di lavoratori. Per non parlare delle tabaccherie, la cui ventilata chiusura rischiava di provocare sommosse popolari.

Da questa banale osservazione traggo che:

  1. A quanto pare le commesse dei supermercati sono enormemente più utili degli insegnanti (e di questo i più convinti sembrano essere gli insegnanti stessi) per cui non capisco perché le stesse debbano, inoltre, essere pagate meno di noi.
  2. Fumare o portare a pisciare il cane sono libertà e diritti irrinunciabili (come fare la spesa come e quando ci pare) chiaramente prioritari rispetto allo studio, e che una generazione di bambini ben pasciuti – a quanto pare - sarà meno danneggiata di una di ragazzini semianalfabeti.
  3. La nostra irrilevanza sociale è un patrimonio a cui, noi docenti, siamo particolarmente affezionati.
  4. Non tutti hanno uguale diritto ad avere paura.

Inoltre, che fine facciano e che futuro si offra agli eventuali figli delle suddette commesse e dove vengano lasciati (specialmente se piccoli) quando le suddette commesse lavorano è – a quanto pare – problema solo delle suddette in questione (che si arrangino!)

Ora io, davvero, trovo che sia una gran vigliaccata continuare a nascondersi dietro la presunta difesa del benessere e della protezione quando sono decenni che, pecoroni silenti, lavoriamo in scuole che sono al di sotto di ogni standard di sicurezza degno di un paese civile. Abbiamo continuato a lavorare in ambienti, troppo spesso fatiscenti e malsani, in molti casi delle vere e proprie trappole in caso di incendio o terremoto, sempre sprezzanti del pericolo.

Evidentemente anche per le paure ci sono le mode.

In questi anni ci siamo fatti umiliare da scelte politiche e didattiche al limite dell’idiozia, abbiamo ingoiato riforme demenziali scritte da ottusi burocrati che non avevano mai messo piede in un’aula scolastica, con la bovina sopportazione di polli da allevamento. Al massimo con qualche borbottìo.

Ed ora eccovi qua, tutti a scrivere per difendere la DaD, a dire che “certo è una situazione di emergenza”, che “chiaramente la scuola in presenza è meglio” ma…

Ma, in fondo, il nostro lavoro lo facciamo lo stesso (anzi c’è persino chi giura di fare molto di più! Gente che scimmiotta riti e formule che erano già obsoleti in presenza, figuriamoci in DAD!), che i ragazzi non sono stati lasciati soli, che noi docenti abbiamo eroicamente e con spirito di adattamento fronteggiato una situazione assolutamente extra-ordinaria.

Solo che ci dimentichiamo che la scuola è (o dovrebbe essere) molto più di questo: è un presidio in zone (la Campania ne è piena, pensate anche solo al “Parco Verde” di Caivano) dove non arriva non solo lo Stato ma neanche la luce della speranza. In troppi posti chiudere la scuola è significato aprire le porte alla Camorra, allo spaccio, alla prostituzione minorile o alla semplice disperazione.

Solo un imbecille può credere che la DAD possa arrivare là dove è capace di arrivare la scuola. Ma solo quando è aperta.

I discorsi sulla scuola dell’inclusione con cui ci siamo riempiti la bocca per anni erano solo fuffa per i grulli, evidentemente.

E, comunque, la DAD è solo immondizia didattica. Lo è sempre, anche laddove le cose – apparentemente – funzionano.

Ma sono cose che sappiamo tutti, è inutile dilungarsi. Io, personalmente, in questo anno e mezzo ho perso sei alunni – Carmine, Davide, Annarita, Pio, Giuliano, Luana – sei persone, sei storie, sei futuri; scomparsi, ingoiati dalla DAD.

E’ un prezzo TROPPO ALTO!

Ma che io lo dica serve a poco.

E allora l’unica cosa che posso fare è chiedervi di non scrivermi più, di non chiedermi firme o adesioni, di cassarmi da newsletters, gruppi di discussione e/o di classe, contatti lavorativi e personali, liste di ogni tipo e quant’altro. Con questa mia intendo disdire ogni abbonamento a riviste e bollettini che mi aggiornano sul mondo della scuola e revocare ogni delega ed iscrizione a sindacati e gruppi di base (dove sarà necessario scriverò lettera formale).

Insomma lasciatemi perdere. Tenetevi le vostre petizioni. Non voglio avere più niente a che fare con voi.

Grazie (firma).

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Ogni tanto mi chiedo come mai ho così pochi amici tra i miei colleghi…

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editoriale di lector

E’ un mostro la Storia. Un drago a tre teste e, con le sue tre bocche, mastica e stritola il tempo e le ossa e le divinità coi loro simulacri.

Vola alto, troppo alto per ascoltare urla e bestemmie. Non sa delle vittime, non conta il tempo e si fa beffe della direzione del vento.

E se ne fotte dei fatti.

Coi fatti ci fai, al massimo, la cronaca.

Però certe volte scende a volare più in basso, si diverte a sfiorare i tetti e, se hai pazienza e scruti con attenzione, e stai attento ai segni, magari (dico magari!) la riesci ad intravedere.

Se la riconosci!

Ecco, in questi giorni, io sto qui e scruto dalla finestra e mi sento un po’ come quel topolino.

Quello di quella vecchia storiella….

Fuori dalla finestra c’è “La Grande Pandemia Del 2020” ed io lo so che, nascosta lì dietro, c’è anche la Storia.

Socchiudo gli occhi e mi sforzo di guardare.

Vedo la gente che canta dai balconi, le bandiere che sventolano, gli Inni.

I vip che lanciano richiami bonari, i potenti con lo sguardo smarrito e le mascelle serrate che prendono decisioni improrogabili.

Le immagini televisive di eroi sfiniti che combattono la battaglia in prima linea, di poliziotti impettiti, di commercianti smarriti, e di chi è costretto a lavorare, e di chi non sa se tornerà a lavorare.

I morti senza nome, le pubblicità televisive che continuano ad essere sempre le stesse, le file ai supermercati.

E la gente alle finestre che aspetta….

Ma questi sono solo fatti, cartoline, spettacolo.

E’ cronaca.

La Storia è altro. La Storia verrà dopo.

Perché “La Grande Pandemia Del 2020” come tutte le cose, ad un certo punto, finirà.

Gli scampati usciranno dai loro ricoveri. Intellettuali e pensatori, preti e politici, complottisti, poeti e scrittori, registi, astrologi, santi e buffoni ci spiegheranno cosa è successo. Ce lo racconteranno e riracconteranno e lo analizzeranno e ce lo sviscereranno.

E ci spiegheranno che dovranno esserci delle conseguenze.

Che “c’è stata la Grande Pandemia del 2020, non lo sai?” Che dovremo rimboccarci le maniche, che “uniti ce la faremo”, che “mica può essere di nuovo come prima?”, che non ci faremo ricogliere impreparati.

Ma il problema è che qualcuno ha dovuto tirare fuori i soldi e che – non ce lo ha detto – ma era solo un prestito!

Adesso tocca restituirlo.

Analisi e conseguenze saranno consegnate ai libri di storia. Studenti annoiati snoccioleranno cifre, date, teorie a professori altrettanto annoiati che assegneranno il capitolo sulla “Grande Pandemia Del 2020”.

Le strade saranno piene di reduci.

“E tu c’eri?”, “ Tu te la ricordi?”

“Te la ricordi “La Grande Pandemia Del 2020”?”

E così, io mi sforzo di interpretare i segni. Socchiudo gli occhi e scruto nella notte.

E mi sento come quel topolino.

Quello di quella vecchia storiella….

Si, la storiella è vecchia ma, magari, non tutti la conoscete.

E, insomma, c’è questo topolino affacciato all’ingresso della sua tana che scruta nella notte.

Ad un certo punto vede un pipistrello.

Allora tutto eccitato si precipita dalla mamma:

-“Mamma, mamma” – urla – “Ho visto un angelo!”

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Mio padre amava il mare e sognava la Rivoluzione. Dalla sua stanza d’ospedale non si poteva vedere il mare, ma si vedeva – anche da lì – che la Rivoluzione era, ancora, solo un sogno.

Le stanze d’ospedale sono tutte uguali. Vuote, amorfe, inospitali. Minacciose.

Anche quando non sei lì per una “brutta” malattia, ma per una più banale, una di quelle per cui non si dovrebbe morire.

Così, mentre aspetti (questo si fa negli ospedali: si aspetta), magari ti immagini il mare e continui a sognare.

E quei sogni me li ha lasciati in eredità.

Sono il suo lascito.

Ma diventa sempre più difficile e, a parlare di queste cose, ci si sente sempre un po’ stupidi.

Si dovrebbe imparare dalle sconfitte, si dovrebbe capire che il mondo ha una scorza dura, che i sogni la semplificano la realtà, sono cose da ragazzini, che anche se ti sembra – anzi ne sei proprio convinto – di avere ragione, di essere nel giusto, ecco che poi non è proprio così.

Si dovrebbe imparare dai propri compromessi, dalle proprie meschinità, che le cose importanti sono altre, che bisogna tirare avanti, che si deve combattere la propria battaglia, che non si può vincere sempre, che bisogna perdonarsi, accettare le proprie mediocrità.

Insomma crescere.

Ed è questo quello che dovrebbe fare un padre: insegnarti a crescere.

Il padre si insinua nel rapporto madre-figlio, ne spezza la dinamica incestuosa ed impone il senso del limite, cioè stabilisce la Legge.

Almeno questo dicono i sacri testi.

Solo che non è più così. Il principio di autorità è crollato sotto i colpi delle spinte libertarie ed innovatrici, prima, ed edoniste poi. La famiglia patriarcale era già morta da tempo ed i modelli morali di riferimento hanno, ormai, perso ogni credibilità ed attrattiva. La Legge è diventata imposizione e i padri insegne da abbattere.

E così i padri sono scomparsi.

Nessuno vuole fare più il padre. Ed in effetti è dura accettare un ruolo che, se ben svolto, ha come senso finale la messa in scena simbolica della propria morte. Un ruolo che è testimonianza, farsi carico, assumersi la responsabilità di indicare un senso. Sognare un futuro.

Siamo immersi in una cultura dominata dal feticcio della madre. Dominata da parole d’ordine materne: accoglienza, comprensione, accudimento, protezione, sicurezza, soddisfazione.

Siamo tutti figli unici.

Ma lo sguardo della madre non arriva dappertutto e, negli anfratti bui, si annidano i lupi.

Ho ripensato a mio padre vedendo questi lupi mostrare le loro zanne in televisione, pronti a sbranare e sbranarsi per difendere il loro diritto di figli unici. Deridere ogni principio di Legge Morale per difendere il proprio boccone. Senza passato e senza futuro, perché il desiderio (che è il fondamento del rapporto figlio-madre) vive in un eterno presente.

Li ho visti lasciar buttare i cadaveri in mare, mettere bambini - soli – in una cella, lasciare naufraghi alla deriva e chiedere di schedare i diversi.

Senza pietà, senza memoria.

E cosa gli hanno detto altre anime belle?

Accoglienza, comprensione, accudimento, solidarietà……

Soluzioni provvisorie, pannicelli caldi, abbracci ipocriti, attesa.

Nel frattempo facciamo il possibile, gestiamo l’emergenza (ci sarà sempre un’emergenza da gestire), si deve essere realisti, non si possono cambiare le cose. Una soluzione arriverà.

Non arriverà.

La soluzione bisogna inventarla, costruirla, farsene carico, assumersi la responsabilità di deciderne il senso.

Sognarla.

E vorrei sapere cosa ne pensa mio padre di ciò che ne ho fatto della sua eredità, dell’uomo che sono. Vorrei sapere come ha fatto lui, se anche lui – come me – aveva paura.

Ma, in fondo, non è questo che mi manca, alla fine le risposte a quelle domande le conosco.

Quello che mi manca, veramente, è di non avere mai potuto offrirgli il mio braccio. Dirgli “appoggiati, riposati, ora ci penso io”. Solo a me è toccato il destino d’invecchiare.

Perché è questo che c’è di innaturale nel nostro rapporto: io diventerò il più vecchio, ma lui sarà sempre il più grande.

Qualche giorno fa, il mio pulcino ne ha fatta una delle sue. Una delle solite. Una delle tante.

L’ho punito. Ho dovuto.

Sono stato inflessibile. Sordo ai suoi pianti, alle sue recriminazioni, alle sue proteste, alla sua rabbia.

Poi ho aspettato che venisse sera, che andasse a letto, che scivolasse nel sonno.

Mi sono seduto vicino a lui.

E l’ho soffocato di baci.

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Auguri di serene festività a tutti i DeBaseriani.

(Aziendale): DeBaser è lieta di augurare Buone Feste a tutti i suoi iscritti.

(Allitterazione): Auguri beneauguranti di festività festose. Sento che le debbo a voi DeBaserioti.

( @De...Marga...): Alegar bei fiol. Buon Natale da una nevosa Domodossola. Che poi, quel Natale lì, io l’ho visto due volte in concerto a Mezzago!

(Ossimoro): Che siano tranquillamente eccitanti le vostre laboriose festività, amorevoli DeBaseriani.

(Telegrafico): Pregiomi augurare Buone Feste-stop-DeBaseriani tutti-stop -

(Buzzin\ @Alfama): Nevosi alberelli luccicanti. Festanti DeBaseriani. Palle.

(Preterizione): Inutile dirvi per quali feste ed a chi sono dedicati questi auguri.

(Onomatopea): Dlìn Dlòn, gnam gnam, tpitiptip, lalala, sbùm, clap clap, bùrp.

(Ribaldo\ @Cialtronius): Annatevene a pijarvelo n’saccoccia voi e il Natale. Fighetti.

(Cameratesco): Impavidi affronteremo questi giorni che non temiamo. Cercheranno di piegarci, di abbuffarci, di blandirci, ma noi non cederemo. Mai!

( @Sotomayor): Cioè, io volevo dire che, tutto considerato e tenuto conto di quanto già detto in altre occasioni, senza per questo voler dimenticare il contesto e, sempre ricordando la lezione di certo cinema ed anche fatta salva la forza delle nuove leve della psychedelia californiana (ma considerando anche la sci-fi classica), ecco, credo di poter affermare e ribadire il mio concetto: Buone Feste.

(Ellissi): Auguri a tutti.

(Burocratico): Visto: l’avvicinarsi di un dato numero di giorni festivi. Visto: il riempirsi di dispense e frigoriferi ed affini. Tenuto conto: della quantità di sonno da recuperare. Considerato: l’assieparsi alle porte di nipoti, nonni, zie, parenti vari e correlati. Si decreta: di augurare ai debaseriani tutti Buone Feste.

( @Pinhead): qui

(Prosopopea): Le Feste si avvicinano a noi per donarci, lo auguro ai DeBaserioti tutti, pace e serenità.

(Depresso): Ok, divertitevi pure, voi, non pensate a me….

( @Sergio 60): auvguri…di sere nefestivta…a tuttti…i debwaseriani. Bella a Flanagan.

(Iperbato): Serene Feste, a voi DeBaseriani, auguro.

( @Flo): Vi ho voluto bene, bastardi. Auguri lo stesso.

(Pubblicitario): A partire dal 24 dicembre, allegato in omaggio per tutti gli iscritti a DeBaser, oltre ad un augurio di buone feste anche un esclusivo “Buon 2018”. Solo con DeBaser. Approfittatene!

(Apostrofe): Andate, miei sentiti auguri, nelle case dei DeBaseriani tutti.

( @Mikinicagi): Uno zaino protonico a Scrooge, un giro di basso decente ai Future of the Left. Woa, mica facile il mestiere di Babbo Natale! Che se non fosse Natale, allora tutti da Gino a farci un chinotto e giù gran manate sulle spalle. Invece tocca pensarci, tipo: una trama sensata per Scurati e per voi tutti cinque alto e una paccata di auguri.

(Allusivo): A chi so io, voi sapete cosa e sapete per quando….

( @Luludia & prole): Che gli alberelli illuminati sono malinconici come gli organetti del circo. Che, a Orsetto, è proprio quella melanconia che gli piace più di tutto del Natale. Ed anche alle ragazze furetto piace quella bruma spumosa. Che tutti gli auguri, poi, si dimenticano ma nell’aria rimane appiccicata la magia. Trallalla.

(Sineddoche): Nel giorno di festa, mille e mille auguri porgo al DeBaseriano.

(Metereologico): Previsto, per fine dicembre, l’arrivo di una estesa perturbazione che porterà sul DeB una pioggia di auguri. Più o meno graditi.

[ @NAB (m-l)]: Comunicato n°241 dal NAB: non ci può esser festa finché il proletariato continuerà ad essere sfruttato. Quando tutte le catene saranno spezzate, quando il DeB verrà liberato dai gioghi gerarchici che sbarrano la strada all'avvento di una nuova e futura umanità, allora festeggeremo. Guardatevi dal rammollimento borghese. Vigilate compagni!

(Giornalistico): Arrestato anziano lappone colto nel tentativo di introdurre illegalmente nel nostro paese giocattoli di provenienza sconosciuta.

(Zot): Auguri.

( @Odradek): Grassi indigesti e fritture pericolose. Dolci duri che attentano alla dentiera. Chiasso. Natale non è un paese per vecchi (cacacazzi).

(Cleuasmo): In fondo, chi sono io, per porgervi i miei auguri? Ma, sappiate, che sono sentiti.

( @Sfasciacarrozze): Deauguri ad iòsam a tutt_ i/le Debaserian_ dal vostro Sphascia(carrozam) di fiducia. Aiò.

(Finto giovanile): Bella lì, raga. Inutile sbalconare, ci aspetta uno sbattone. Giorni pesi, e allora scialla e tanti auguri al DeB. Evvai di like.

(Asindeto): Natale, vociare festante, scontata allegrezza, incontri. Auguri.

( @Imasoulman): “Come? ... pranzare in casa? | Pranzare in casa è male | Oggi ch'è la vigilia di Natale!” (La Bohème). Che Wittgenstein mi perdoni….

(Elettorale): Una proposta chiara: Auguri per tutti!

( @Heartshapedbox): qui

(Anacoluto): Si sa che a noialtri DeBaseriani, ci piace di farci gli auguri.

(Il Conte): Tanti nobili auguri a tutti. Vabbé, però adesso mi emoziono…. Sono grande e grosso e pure sensibile e posseduto dai demoni del blues.

(Preciso): augùrio s. m. [dal lat. augurium, der. di augur «augure»]. – 1. a. In senso proprio, la cerimonia con cui gli àuguri ricavavano presagi dall’osservazione del volo degli uccelli o da altri fenomeni; anche, il presagio stesso. b. non com. L’arte divinatoria degli àuguri. 2. Presagio in genere, indizio, previsione di eventi buoni o cattivi: essere di buono, lieto, felice, o di cattivo, tristo, sinistro a.; questo fatto mi pare di ottimo a.; le sue parole mi suonano di pessimo a. (v. anche malaugurio). Quindi anche presentimento: Or tristi auguri e sogni e penser negri Mi danno assalto (Petrarca). 3. Desiderio che accada qualcosa di bene, e l’espressione stessa di questo desiderio: formulare un a.; a. di felicità, di buona fortuna; ti faccio l’a. di guarir presto; gradisci i miei più sinceri augurî; cerca di riuscire: questo è il mio a. più cordiale. Inoltre: fare, porgere, mandare, inviare gli augurî; lettera, cartolina, biglietto di augurî, per le maggiori solennità o per qualche avvenimento particolare, come compleanno, onomastico, matrimonio, ecc. (e in questi casi si adopera sempre al plurale). [fonte: Dizionario Treccani online]

No, non ne faccio 99, in fondo queste sono esercitazioni, mica esercizi (di stile).

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editoriale di lector

Non era mia intenzione distruggere l’equilibrio del giorno, in un luogo – oltretutto – dove non ero mai stato felice. E quelli battuti alla porta della sventura, sono stati ben più di quattro colpi secchi.

E’ che stamani mi sono svegliato dopo un sonno agitato ed ero trasformato.

Un enorme insetto splendente senza mele nel fianco, un immondo angelo della vendetta.

E poi è arrivata la nausea.

Perché, vedi, se nulla ha senso allora tutto è gratuito. Quando ti capita di rendertene conto, ti si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare.

Così ho cercato un posto che mi sembrasse adatto.

Una scuola, un supermercato, una sala da concerto, una piazza affollata.

Uno vale l’altro, poiché lo Spirito è a sé stesso dimora e può farsi del Cielo un Inferno e dell’Inferno un Cielo.

Così questo è il luogo, questa l’ora e questo il giorno!

Accarezzo la mia Uzi calibro 9 parabellum, fredda e fedele amica, ora sei libera di cantare il tuo canto d'odio. Il tuo canto di liberazione.

I primi se ne sono andati senza nemmeno accorgersene.

Poi l’incredulità, lo smarrimento, il caos, il terrore.

Chiamate il vostro Dio? Io potrei credere solo a un dio che sapesse danzare.

Volevate essere salvati? Io crederei all’esistenza del Salvatore se voi aveste una faccia da salvati.

E poi una di quelle facce mi insinua due occhi bistrati sulla punta delle mani. L’abitino della festa, le unghie dipinte coi colori della bandiera, i leziosi fermagli luccicanti fra i capelli.

Oggi ti aspettavi, forse, di rubare un bacio? O di riderne con le amiche?

E mi biascica insinuante, con rabbia lamentosa, la sua domanda: “perché?”

Interessante….

Cosa dovrei risponderle? Che bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante?

Ma davvero crede che ci sia un perché, un senso, una motivazione?

Questo non è mica un film dell’orrore, un banale b movie per adolescenti dove il Male appare sempre per un motivo ed agisce sempre secondo una sua logica, anche se assurda.

Questa è la realtà e il Male trova la sua ragion d’essere solo in sé stesso.

Il Male non è banale: è ottuso. E’ libero dalla prigione della logica.

Pape Satan, pape Satan aleppe.

L’Agnello ha infranto il Settimo Sigillo, le porte si sono aperte, presto si udranno le trombe dei Sette Messaggeri.

“Et vidi aliud signum in caelo magnum et mirabile angelos septem habentes plagas septem novissimas quoniam in illis consummata est ira Dei.”

Le porte, ormai, sono spalancate: psicopatici, terroristi, depressi, invasati religiosi, rivoluzionari, vittime, carnefici. Stanno arrivando, sono già qui, altri ne arriveranno.

Noi siamo la malattia, noi siamo la cura.

Saranno, poi, psicologi e sociologi, giornalisti, preti, politici ed esperti vari a doversi guadagnare il loro guiderdone. A doversi inventare un significato. Politico, religioso, psichiatrico, sociologico. A doversi sforzare di vederci un senso quale che sia, pur di non dover sopportare il peso della Verità.

In quanto a me, io indosso una corona.

“una corona degna è d'alti pensieri, ancor che splenda

su questo abisso di dolori. Oh, meglio

Re nell'inferno che vassallo in cielo!”

Ma come glielo spiego? Così le rispondo in fretta: “perché no?”

Ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione.

Così la libero dal peso di un futuro fatto di rimpianti e di un matrimonio da poco. E poi faccio lo stesso dono ad un futuro avvocato. E poi pensionati, casalinghe, studenti, fiscalisti, disoccupati, stagnini, gelatai….

Intanto canticchio “Cease to Exist”.

Madri, e padri, figli, fratelli, amici, amanti. Di qualcuno.

Giudice, finalmente, arbitro in terra del bene e del male.

Ed Eric disse a Dylan: “cerchiamo di divertirci mentre lo facciamo”.

Laggiù a Columbine.

Poi, liberatorie, ho sentito le sirene.

Temevo che non mi bastassero le pallottole.

Stanno arrivando. Arrivano per me.

Peccato che non siano ancora le tre. Le tre è sempre troppo tardi o troppo presto per quello che si vuol fare. È la più stramba ora del pomeriggio.

Devo trovare il tempo di scrivere – da qualche parte – “Healter Skelter” (si, io lo so che è scritto male, non sono mica “Tex” Watson!).

Arrivano.

Finalmente.

Ora, perché tutto sia consumato, perché io mi senta meno solo, non mi resta che augurarmi che ci siano molti spettatori alla mia esecuzione.

E che mi accolgano con delle grida di odio.

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Campionamenti: “Lo straniero”; “La metamorfosi”; “Il processo”; “La nausea”; “Così parlò Zarathustra”; “Umano, troppo umano”; “La Divina Commedia”; “Apocalisse di S. Giovanni”; “The Paradise Lost”; “Cease To Exist” (Lie: The Love and Terror Cult); “Bowling a Columbine”; “Un Giudice” (Non al denaro, non all’amore né al cielo).

Solo un piccolo raccontino natalizio in questi giorni già pregni della futura atmosfera di festa.

Dedicato a Charles Manson e Leslie Van Houten (che non è la mamma di Milhouse).

Che brucino all’Inferno.

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editoriale di lector

-Papà! Papà!

Le manine protese, la vocina implorante (ed insopportabilmente stridula).

Sudo. Sudo e bestemmio.

-Aspetta. Ancora un momento. Forse ci sono, forse….

MALEDETTI!

Hai mai provato a montare quei giochini di merda che escono da quegli schifosissimi ovetti?

-Papà! Papà!

Ma come cazzo li fanno?

Pezzettini piccolissimi, assemblati da minuscole manine di bimbi indocinesi, incastri farlocchi e fraudolenti, istruzioni illeggibili e beffarde, meccanismi assurdi. Colori immondi.

E questo? Che cazzo di %divinità a piacere fusa con animale ributtante% dovrebbe essere?

-Papà! Papà!

MALEDETTI!

Perché lo fanno apposta. Mica crederai che è tutto un caso. C’è un piano, un piano ben preciso. Più quella vocina pigolante mi trapana il cranio (e rompe pure il cazzo, diciamoci la verità), più mi figuro i soldi che spenderò in psicologi e terapeuti. Perché lo sai che se fallisci un’altra volta la pagherai (e la pagherai cara) in futuro. Non sarai più quello di prima. Mai più quello che ha ritrovato il pupazzetto di Sam il pompiere perduto sotto la credenza, né quello che conosce i nomi di tutti gli animali (pure inventandoseli).

No: “Dottore, mio padre era un incapace ed un millantatore”. Ecco cosa mi aspetta.

C’è dietro la lobby degli psicologi?

O quella delle agenzie di viaggio? (Papà, vado in India a cercare me stesso. Tu sei una merda. Ho bisogno di figure di riferimento forti)

O i cartelli della droga?

O la Chiesa?

Le lobby del tabacco? Dei liquori? Del porno? L’Isis? I sette savi di Sion? Le sette sorelle?

-Papà! Papà!

Come ho fatto a cascarci di nuovo! Non lo ha voluto, chiaramente, per quel cioccolato di merda unito a quello schifoso strato di robaccia bianca che neanche loro hanno il coraggio di chiamare cioccolato bianco, questo fottutissimo ovetto! No, lui voleva la stronzissima sorpresina, che ci avrà pure tre anni ma, a ‘sto punto, mi pare già avviato verso un futuro da coglione.

Ma sarà proprio figlio mio? Si, cazzo: è proprio tale e quale al suo babbo….

MALEDETTI!

Papà! Papà!

E faccio l’errore di incontrare il suo sguardo.

Lo riconosco quello sguardo: è lo stesso di sua madre quando ci portammo a casa il tavolino “notreciakkof”.

Svedese? No! E’ l’acronimo di “NOn Ti REsta Che Imparare A Cantare Come Farinelli”.

Bastardi!

E tu continui a dire che non c’è dietro un piano? Un sottile, raffinato, diabolico piano.

Un tempo si andava in camporella (tutti abbiamo uno zio ex fico che ci racconta le cose di “un tempo”) e, dopo aver limonato duro come se non ci fosse un domani, capitava – alle volte – che la vecchia 127, o altro macinino a scelta, vuoi per gli acciacchi dell’età, vuoi perché era un ammasso di ferraglia, facesse le bizze e sbuffasse in preda ad un attacco di catarro.

Allora, un tempo, si apriva il cofano, si dava una pulitina alle candele, si stringeva qualche vite, si soffiava sul carburatore e il vecchio macinino ripartiva.

E lei ti guardava come l’eroe invincibile che l’aveva salvata dai pericoli del mondo.

E magari si ricominciava a limonare.

Che c’entra? Niente: ormai sono andato.

Sarà una lunga notte.

MALEDETTI!

-Papà! Papà!

Ma vaffanculo!

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editoriale di lector

Se c’è una cosa di cui è ancora lecito stupirsi è che in certe giornate, ubriache di sole primaverile, tutto può diventare bello: anche le erbacce che spuntano tra i marciapiedi come peli dal naso o dalle orecchie, anche le carrozzerie brilluccicanti delle macchine parcheggiate e persino questo orribile casermone che si erge per cinque piani qui a vicolo Scassacocchi, tra i rifiuti lasciati ad essiccare ed il piscio dei cani.
Una luce violenta e vitale penetra e stravolge gli anfratti, trasfigura le sagome e le cose e, i muri, denudati dal sole, si mostrano impudicamente all’occhio con gioiosa vitalità.

Allora diventa plausibile che persino questo lurido appartamentino, ricavato in un angolo del secondo piano, a qualcuno possa sembrare una casa dove poter vivere e che stranieri o studenti siano qui fuori a far la fila per entrare - come dice il padrone di casa - e che ci sia addirittura un cinese che ci vuol portare tutta la famiglia, moglie, figli e suoceri a carico, e che pagherebbe ben più di quel paio di centinaia di euro che, oltretutto, Ernesto non paga già da qualche mese.

Brutto vizio, quando si è lavoratori precari, il voler continuare a vivere, mangiare almeno una volta al giorno, vestirsi e voler avere finanche un tetto sulla testa. Anche quando il proprio contratto atipico è ormai scaduto già da un po’ e non si è neppure poi così giovani.
Eppure, forse rapito dal colore di quella luce straniante che, invadendo la stanza dall’unica finestra, illumina tutto quel luogo fino a poco prima così grigio, portando con sé un odore di fresco e di pulito, Ernesto si sente invaso da una strana calma.

Non si può odiare in una giornata così splendida di primavera.
Non si può continuare a piagnucolare quando la vita esplode tutt’intorno.

Perciò Ernesto prende una decisione: diventerà un supereroe.

A tutti piacciono i supereroi, anche a Ernesto piacciono i supereroi. Soprattutto gli piacciono i cattivi, perché li riconosci, lo vedi che sono cattivi: si vestono da cattivi, parlano da cattivi.

Beato il mondo che non ha bisogno di eroi, ma questo mondo fa schifo, fa così schifo che altro che eroi: ci vogliono i super eroi!

Quando hanno cominciato a piacerci così tanto i supereroi?
Semplice: quando hanno smesso di piacerci le idee.

Anche io quando ero giovane amavo le idee: erano belle, erano rotonde, erano lucenti le idee! Ed era cosi facile distinguere le idee buone da quelle cattive.
Le idee cattive si vestivano da cattive, parlavano da cattive, si capiva subito che erano cattive.

Poi le cose hanno cominciato a diventare complicate: belle idee producevano figli cattivi e altri figli cattivi facevano cose buone che poi diventavano cattive e dai semi di rose nascevano solo spine.

I supereroi non lo vogliono cambiare il mondo, sono le idee che si sono messe in testa di cambiarlo.
I supereroi – biff, pùm, spack. tong – picchiano i cattivi e, poi , tutto rimane come prima in attesa che arrivi un altro cattivo e, alla fine, è meglio così.

La verità è che un mondo migliore non fa per me: io finirei subito in galera in un Mondo Migliore.

Un tempo le idee erano un lusso che potevano permettersi solo i giovani, adesso sono un passatempo ozioso per i vecchi.

Ma a Ernesto tutto questo non interessa, lui pensa: “perché no? perché io no?”
Basta con le recriminazioni, l’odio, l’autocommiserazione, tutto questo non serve, tanto le cose non cambiano, bisogna offrirsi al mondo, agire, combattere il male, difendere e salvare la Vita.
Sì anche quella di quello stronzo del padrone di casa o di quelle ragazze così belle, i cui sguardi ti attraversano come se tu non fossi niente e che si chiederanno chi sia quell’eroe che le ha salvate e sogneranno di baciarlo, senza sospettare che dietro quella maschera ci sia quel tizio, strano e taciturno, che vive in una stanzetta di quell’orribile casermone a vicolo Scassacocchi.

Così, mentre strappa, ritaglia e cuce pezzi di vecchi abiti malmessi cercando di farsi un costume, a Ernesto - dopo tanto tempo - gli viene pure voglia di cantare.

Adesso che è pronto, così intabarrato, Ernesto si sente finalmente un altro.

Ora si tratta di arrivare in cima al tetto senza essere visto: sarebbe imperdonabile farsi scoprire proprio la prima volta.
Poi Ernesto sorride di sé: già da tempo sa di essere invisibile.
Così si inerpica con ostentata tranquillità su per le scale e gli androni di quel palazzone che tra sottoscala e superfetazioni è quasi un mostruoso formicaio, monumento all’abuso edilizio. Nessuno lo vede, tranne Aniello, il bambino del quarto piano che gioca, come sempre, sul pianerottolo dove la madre, che lavora di notte, lo deposita ogni mattina per poter dormire un po’.
Aniello lo guarda con uno strano sorriso, poi torna a giocare.

Ora è sul tetto, può vedere i barbaglii delle onde di quello spicchio di mare che si riesce a sbirciare al di là di tutte quelle case che si mangiano l’orizzonte.

Che giornata splendida!

Per un attimo i rumori si acquietano e si riesce a percepire il suono di una brezza leggera e sentire l’odore lontano di un qualcosa che non c’è più. Una consapevolezza gli trafigge il cervello: la bellezza avrebbe potuto salvarci.

Ma è un attimo.

Adesso è tardi, c’è altro da fare.

Ernesto si calca la maschera sul viso, flette i muscoli, prende un profondo respiro e si lancia nel vuoto.

Libero.

Finalmente libero.


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